Internazionale

Tra guerra e pace, le donne in prima linea

Una sopravvissuta nel kibbutz di Nir Oz Getty/Dan KitwoodUna sopravvissuta nel kibbutz di Nir Oz – Getty/Dan Kitwood

Tremenda vendetta Dentro Israele subiscono gli effetti peggiori dell’offensiva: meno lavoro, più abusi, poca rappresentanza. Eppure sono loro ad alzare con più forza la voce per il cessate il fuoco

Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 5 ottobre 2024

Un rapporto del Centro Adva e dell’Istituto Van Leer di Gerusalemme, in collaborazione con la Fondazione Friedrich Ebert, pubblicato lo scorso settembre, fornisce i primi e provvisori risultati dell’impatto di un anno di conflitto sulle donne israeliane. Come sottolineano gli autori, la guerra, come altre situazioni di crisi, colpisce le donne in modo diverso rispetto agli uomini e tendenze preoccupanti si registrano in molteplici settori, a partire da quello lavorativo.

DAL RAPPORTO emergono danni significativi all’occupazione femminile, soprattutto tra le impiegate a ore, le autonome e le donne palestinesi. Le donne sono state la maggioranza sia dei licenziati che dei destinati alla cassa integrazione. Una problematica di genere traspare anche dal tasso di assenteismo dal lavoro a partire dal 7 ottobre. Tra gli uomini la ragione principale di assenza è legata alla chiamata come riservisti con un tasso che dal 18% nell’ottobre 2023 ha raggiunto il picco del 41% nel gennaio 2024, per poi scendere gradualmente fino al 6% nei mesi di aprile e maggio.

Tra le donne, il tasso di assenteismo dovuto alla chiamata ha raggiunto il picco massimo del 7% nel gennaio 2024, tuttavia la percentuale di donne assenti per malattia propria o di un familiare è stata più elevata durante tutto il periodo. Si parla di circa un quarto delle donne assenti nei mesi di gennaio e febbraio (rispetto al 16% e al 19% degli uomini). Le donne hanno preso anche più giorni di ferie rispetto agli uomini. Sempre in materia di occupazione, nei settori della sanità e dell’assistenza sociale accanto alla domanda crescente da parte degli utenti si accompagna una grave carenza di personale specializzato, soprattutto nel campo della salute mentale in cui sono impiegate prevalentemente donne. Secondo le stime, ad esempio, negli enti locali e nei ministeri di Welfare e Sanità mancano circa 5mila assistenti sociali, mentre nel sistema scolastico manca il 30% delle psicologhe previste.

DAL NUMERO delle accuse presentate e degli arresti effettuati, emerge anche l’aumento della gravità dei casi di violenza domestica, con un andamento diverso da quella dei primi mesi dell’epidemia di covid, quando un forte aumento delle denunce di violenza domestica era evidente nel contesto della politica di quarantena. La differenza sta nella diminuzione delle richieste di aiuto nei primi mesi di guerra, causata dalla percezione di mancanza di legittimità nel lamentarsi o contattare gli operatori sanitari rispetto al dramma in atto e dalla mancanza di disponibilità da parte delle vittime alla cura di se stesse.

L’INCREMENTO della militarizzazione ha comportato inoltre un aumento significativo del numero di licenze private di armi (il numero di quelle approvate dal ministero per la sicurezza interna nel 2023 è più di tre volte superiore a quello dell’anno precedente) che mette a repentaglio la sicurezza delle donne. Inoltre, l’aggravarsi delle persecuzioni di natura politica ha condotto a una perdita del senso di sicurezza delle donne arabe, soprattutto negli spazi condivisi, intaccando la loro possibilità di integrazione nel mercato del lavoro. Il 60% delle palestinesi riferisce di sentirsi a disagio nel recarsi in insediamenti ebraici o misti per lavoro o commissioni, e questo rispetto al 48% degli uomini arabi intervistati.

Preoccupante è anche la forte diminuzione della rappresentanza delle donne in posizioni chiave e nei processi decisionali. Nell’attuale Knesset sono presenti solo 29 deputate, rispetto alle 35 del parlamento precedente. Solo una donna presta servizio nel gabinetto politico-di sicurezza, mentre in quello socio-economico si contano solo tre donne su 19 membri complessivi. Al fine di ridurre i danni e prevenire un’ulteriore espansione dei divari di genere in Israele, il rapporto chiede l’integrazione delle donne tra i responsabili politici e l’adozione di una prospettiva di genere nella pianificazione e nel processo decisionale, auspicando che venga garantita anche la raccolta e la pubblicazione sistematica di dati segmentati per genere in modo che le tendenze possano venire identificate nel tempo.

LA PREOCCUPANTE fotografia fornita dal rapporto è per forza di cose parziale per mancanza di dati, né prende in considerazione le donne palestinesi prive della cittadinanza israeliana, come quelle che vivono in Cisgiordania o a Gerusalemme est. Inoltre i risultati andranno monitorati anche in fase di riabilitazione, processo che tuttavia non può avere inizio mentre i traumi sono ancora in corso. In questo senso continuano a essere particolarmente penalizzate, oltre alle palestinesi, le donne sfollate, le madri e mogli dei riservisti e tutte le donne che detengono legami personali e familiari con gli ostaggi. I danni dell’atroce stress fisico e psicologico a cui sono sottoposte sono ancora inimmaginabili e potranno essere stimati solo nel lungo periodo. Come nel caso delle violenze di genere perpetrate il 7 ottobre da Hamas e delle donne catturate, è evidente che il genere femminile sta pagando a caro prezzo la violenza politica e militare che pervade lo spazio pubblico israelo-palestinese.

PER QUANTO allarmanti, tuttavia, le statistiche non possono cancellare il ruolo centrale ricoperto in questi mesi proprio dalle donne ebree, palestinesi e druse di cittadinanza israeliana e il loro preziosissimo contributo alla società nell’affrontare la crisi. Le donne sono anche in prima linea per la pace e nelle ancora troppo poche e coraggiose iniziative congiunte come quella recentemente promossa dal «Movimento Spirituale per la Pace» tenutasi a Gerusalemme il 26 settembre scorso. Sono proprio le donne osservanti, ebree e musulmane, a muoversi con maggiore agio negli spazi «misti», a dimostrazione che la religione e le donne sono anche delle preziose alleate, checché ne dicano gli stereotipi occidentali.

TRA LE ORATRICI che hanno tenuto i discorsi più interessanti c’è stata la giornalista drusa Eman Safady dell’organizzazione JPC che ha sottolineato l’importanza di mettere da parte le vendette per avviarci verso la pace e la normalizzazione che passeranno, secondo lei, attraverso una «pulizia energetica» e accordi sugli spazi marini e le risorse energetiche. Importante anche la riflessione della professoressa Haviva Pedaya dell’Università di Ben-Gurion del Negev, presidente del movimento, intellettuale e discendente della stirpe di cabalisti Fatiyah di origine irachena, che ha sottolineato l’importanza della stipula di accordi politici nella realpolitik della tradizione sefardita orientale ebraica. E siamo solo all’inizio.

Oggi, a un anno da quel disgraziato 7 ottobre, l’urgenza di spendersi in prima persona per raggiungere un accordo per il cessate il fuoco e per il ritorno immediato degli ostaggi, per poi iniziare un faticoso e lungo processo di ricostruzione, è massima e le donne dimostrano di averlo compreso superando coraggiosamente ogni accusa di tradimento e critica di asimmetria che viene loro rivolta dalle rispettive etnie. Mettiamo da parte le ideologie e diamo loro voce.

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