Il corpo di una donna affiora lentamente fra le foglie e nel fango, gli occhi, la pelle su cui la terra si è seccata quasi impastandola al resto. Sono le prime immagini di un lavoro di Zahy Tentehar, artista, filmmaker, performer, attivista nata nello stato del Maranhâo, Nordest del Brasile, all’interno della comunità Tentehar-Guajajara a cui dà voce nella sua opera e in un gesto artistico che rivendica una identità collettiva. Di cosa parla Tentehar? Della lotta per i diritti e della sovranità dei popoli, che per le comunità indigene in Brasile coincide sostanzialmente con la propria sopravvivenza di fronte all’aumento delle persecuzioni, all’espropriazione violenta e allo sfruttamento ecologico cui sono sottoposte. E di cosa significa «civilizzazione» – la parola karaiw nella lingua Ze’eng Eté, il dialetto Tupi-Guarani che utilizza – rispetto a «barbaro» o «selvaggio» in una scala di senso la cui centralità è data unicamente dai parametri della cultura occidentale, delle sue tecnologie nel passato secolare di colonizzazione che ha azzerato le conoscenze «altre» e nel presente liberista. E se la definizione di «indigeno» ha le sue radici in un immaginario coloniale, quali sono gli strumenti per decolonizzarne il senso, per liberarne la rappresentazione da quell’intreccio di progresso e modernità con cui si fa coincidere la «civilizzazione»?

Il corpo è centrale nei lavori di Tentehar, è una presenza politica così come la lingua, e unisce nei legami con la terra, con una natura che è fisica e spirituale l’essere donna a quella «R-esistenza» rivendicata e invocata, alla decolonizzazione delle immagini e della cultura, alle comunità che abitano i luoghi a cui anche lei appartiene. Tentehar è una delle artiste al centro del Focus sul cinema indigeno brasiliano al Festival del Film di Bolzano – fino al prossimo 21 aprile – in un programma che unisce tematiche diverse ma che è attraversato da una comune riflessione sulle immagini e sulle narrazioni del contemporaneo – ne è un esempio un film come Pepe, Orso d’argento alla scorsa Berlinale, in cui il regista, Carlo de Los Santos Arias, unendo leggenda e realtà, nella storia dell’ippopotamo trapiantato a forza in Colombia nelle piantagioni di Escobar, disegna una geografia dello sradicamento e dell’estraneità, delle migrazioni e dei razzismi. Diviso in tre sezioni, il Focus dialoga anche idealmente con il tema al centro della Biennale Arte di Venezia di quest’anno, quello «Stranieri ovunque» che allude appunto all’estraneità di molte e molti nella propria terra.

«Omicidio, genocidio, massacro» – sussurra nel video Tentehar mentre disegna dei simboli sul suo volto. È la voce del movimento sociale Guajajara conosciuto come «Guardiani della Foresta», un gruppo che abita e protegge la terra indigena di Arariboia, situata nel margine nord-orientale della foresta amazzonica. Sebbene sia stato riconosciuto ufficialmente come movimento sociale solo nel 2013, i Guardiani della Foresta hanno protetto per decenni la foresta pluviale dagli omicidi mirati dello Stato, dalla deforestizzazione, dal saccheggio della terra, dai trafficanti di droga. Negli ultimi anni sono stati coinvolti in violenti scontri contro gli interessi privati autorizzati dallo stato, che hanno sistematicamente assassinato i capi tribali Guajajara. È questa la civiltà?

E se nel gesto artistico di Tentehar, nella sua spinta fusionale con la terra si possono rintracciare le esperienze di altre artiste – viene in mente Ana Mendieta nel suo legare femminismo e decolonizzazione dell’immaginario – Denilson Baniwa si definisce un «artista antropofago» riferendosi al movimento artistico che ha cercato di trasformare la logica coloniale attraverso la cosmogonia indigena brasiliana. Del resto proprio Oswald de Andrade, artista e poeta col suo Manifesto Antropofago (quale è stata la forza del Brasile se non quella di «cannibalizzare» le altre culture diceva) è stato il riferimento per il sincretismo di Glauber Rocha e per quel Cinema Novo che nell’invenzione di forme si appropriava di tutto per ricrearlo in geometrie e potenze di lotta sempre nuovi.

Baniwa, che è anche tra i curatori del Padiglione del Brasile alla 60° Biennale d’arte, è nato nel villaggio di Darí, a Barcelos, in Amazonas, nel 1984, ha iniziato con la lotta per i diritti dei popoli indigeni. Nel suo lavoro unisce riferimenti tradizionali e contemporanei, utilizzando icone di culture visive non indigene per promuovere la consapevolezza della lotta dei popoli indigeni. «Il Movimento Indigeno Amazzonico è stato la mia scuola di politica e di lotta. Essere un artista non è mai stato qualcosa che ho cercato, è successo per caso quando sono stato invitato a far parte di una mostra nel 2016 chiamata Dja Gjuata Porã – Indigenous Rio de Janeiro. In quel momento ho capito come l’arte poteva essere alleata nel mio lavoro, era uno strumento potente nella lotta indigena per i diritti e la sopravvivenza e, allo stesso tempo, apriva un dialogo con le persone non indigene» dice l’artista. Che utilizza nei suoi «collage» molti materiali diversi seguendo però un obiettivo: «Il mio messaggio è: guardate delle cose carine che alla fine si capovolgono in un discorso anticoloniale».

In Cursed Harvest (2022) vediamo una sterminata distesa di campi coltivati a mais: dove siamo? La foresta amazzonica è scomparsa, divorata dalle colture intensive dell’agroalimentare che hanno devastato non solo la vita delle comunità locali ma quella del pianeta intero. In quel paesaggio anonimo, uniforme, appare una figura umana con la maschera di un animale che somiglia a un cartone, o a una maschera di carnevale: uno spirito, un Essere Cosmico, una figura che avverte del pericolo e del terrore nella frattura insanabile fra l’essere umano e il Pianeta.