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«Tenga duro signorina!», Isabella Ducrot e la pienezza della vecchiaia

«Tenga duro signorina!», Isabella Ducrot e la pienezza della vecchiaiaIsabella Ducrot in «Tenga duro signorina!»

Venezia 81 Alle Giornate degli autori il doc di Monica Stambrini che ripercorre la vita e il successo tardivo dell’artista

Pubblicato circa un mese faEdizione del 31 agosto 2024

La vita felice? Comincia dopo i sessant’anni e prosegue, in un crescendo di meraviglia e gioia, fin oltre i novanta. Isabella Ducrot non ha dubbi, lei è un esempio vivente di questa filosofia incardinata sulla pienezza della vecchiaia, che infrange ogni tabù occidentale: l’ha imparata sulla sua pelle, scoprendo giorno dopo giorno quante cose era in grado di fare come artista, lavorando sodo sui suoi tessuti e le sue carte sottili, veli di altri mondi, bende da ospedale, inanellando mondi erotici, mitici e spesso pervasi di una selvatichezza salvifica, che mescola corpi umani e istinti bestiali. Tenga duro signorina! Isabella Ducrot Unlimited è il documentario girato da Monica Stambrini à coté della protagonista, arrivato al festival di Venezia per le Giornate degli Autori (Eolo Films Production). «Non ho esitato a iniziare questo lavoro senza ‘le spalle coperte’, da sola con una videocamera – afferma la regista – con il privilegio a volte di essere uno sguardo invisibile, altre di starle vicino come un’interlocutrice e una compagna di viaggio in questi due anni incredibili».

ANTONIA MOSCA – questo il suo primo nome – è di origini napoletane ma ha vissuto prevalentemente a Roma in una grande e raffinata casa divenuta anche il suo atelier, con il marito Vicky (che ha perso di recente), complice intellettuale delle sue escursioni creative fra i colori e i tessuti. Nel film la vediamo insieme a galleriste come Sadie Coles e Gisela Capitain, mentre quest’ultime scelgono i lavori da portare in fiere o in mostre importanti. La prima a sorprendersi del suo successo è proprio lei. Anche Basilea la reclama. Confessa di sentirsi immersa in qualcosa di «sproporzionato».

Tutto è cominciato dopo i 55 anni. Prima, era una ragazza insicura, infragilita dalla tubercolosi, che conviveva con il pensiero fisso della sua «miserabilità». Poi, il trasferimento a Roma a 30 anni, il lavoro presso Ibm e infine il matrimonio con Vicky con il quale costruisce la sua nuova esistenza («devo molto a lui e alla sua generosità intellettuale»). Lo fa da autodidatta, con coraggio, sfidando gli stigmi sociali. Ha sfamato la sua curiosità artistica in Oriente, con andirivieni in India e in Afghanistan (luoghi di «salti mentali»), innamorandosi di quei motivi ripetuti sulle stoffe di inaudita poesia. Per lei, la pittura è osmosi, non c’è separatezza fra un dentro e un fuori. Da sempre, racconta, ha collezionato rotoli di tessuti, considerandoli come pergamene sacre. A Napoli, nella metropolitana è l’autrice di due titanici mosaici, ma in pochi si ricordano di citarla. Lei non ci fa caso, ride e dice di essere pronta a coltivare il desiderio di ritorno nella sua terra natia, adesso che va avanti con gli anni e suo marito non c’è più. Si sente «proustiana» in questo suo riscatto atteso dall’incertezza. E, soprattutto, Isabella Ducrot, classe 1931, guarda al futuro.

AL PALAZZO DELLE ARTI e tradizioni popolari di Roma è in corso una sua personale – Tessere è umano, fino al 16 febbraio, a cura di Anna Mattirolo e Andrea Viliani con Vittoria Pavesi – che crea un dialogo serrato tra le sue opere e le collezioni tessili del Museo delle Civiltà, sviluppando un palinsesto storico di sicuro fascino.

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