«The Brutalist», l’arte e la rinascita dopo gli orrori dell’Olocausto
Venezia 81 L’ambizioso racconto di Brady Corbet dell’architetto ebreo ungherese Laszlo Toth nell’America capitalista
Venezia 81 L’ambizioso racconto di Brady Corbet dell’architetto ebreo ungherese Laszlo Toth nell’America capitalista
The Brutalist è diventato subito quel che si dice «il film del festival» almeno nella bolla del Lido che si è divisa come accade sull’ambizioso progetto a cui Brady Corbet, il trentaseienne regista dell’Arizona, da piccolo attore in sit-com e opere d’autore – per esempio Mysterious Skin di Gregg Araki – lanciato dalla Mostra di Venezia con l’esordio L’infanzia di un capo (2015, Leone del futuro) ha dedicato diversi anni di lavoro.
Proprio come fa col suo mausoleo il protagonista del film, l’architetto ungherese Laszlo Toth (Adrien Brody), raffinato esponente del Bauhaus in patria, annientato dalla guerra e sopravvissuto al campo di concentramento prima di arrivare in America, la terra del nuovo inizio – |«Quando abbiamo visto dalla nave la statua della Libertà ci siamo sentiti in qualche modo a casa» scrive nei suoi diari Jonas Mekas, filmmaker e artista, ricordando il proprio arrivo a New York da esiliato del conflitto.
Nei fatti non era così semplice, e nonostante la figura di Toth incarni l’Olocausto portando in sé il trauma del secolo trova molta ostilità. O forse è questo a renderlo una presenza sgradita? Non ci vogliono ripete. Perché? La memoria è ancora da costruire e i poli tra i quali oscilla appaiono inconciliabili.
Il cugino di Toth arrivato negli States prima di lui ha cambiato nome e si è fatto cattolico sposando una donna americana di chiesa. Lo avevano fatto già prima della guerra e di tutto il resto anche coloro a cui si deve Hollywood adottando un nome americano più «commerciale». Le fondamenta sono dunque poste annunciando la riflessione fra il Novecento e i nostri giorni che di quel trauma continuano a far risuonare l’eco; il corpo e la mente del suo protagonista calpestato,usato e abusato; il capitale e l’artista, in una nuova rivisitazione del Grande Gatsby e di La fonte meravigliosa (1949) di King Vidor (citatissimo in questa Mostra, sua la referenza anche in Joker. Folie à deux), che scandaglia il capitalismo Usa brutale nella sua ostentazione di magnanimità. Il rapporto con gli ebrei nella società americana e la narrazione dello stato d’Israele.
La corrispondenza di Corbet e Toth non si ferma alla monumentalità del gesto creativo, per il primo un film in 70mm Vistavision di 3 ore e 35 minuti, per il secondo il memoriale che deve contenere l’arte nel suo respiro più ampio, commissionato all’architetto dal tycoon per onorare la moglie morta e elevare la piccola e ottusa comunità del paese che mal digerisce però un ebreo come artefice della sua grandezza.
Questo film fa tutto ciò che oggi ci viene detto di non poter fare. Troppo lungo?: è come criticare un libro per essere lungo 700 pagine invece di 100. Brady Corbet
Corbet è autore che predilige un dispositivo cinematografico autoritario disseminandolo qui più che mai di segni da interpretare sulle superfici delle sue immagini magniloquenti che nell’incedere affermano la loro importanza al punto da far sorgere il dubbio che tanto senso sia davvero tale.
L’aggressività del suo gesto filmico ci schiaccia proprio come le linee dell’edificio di Toth a cui si può sovrimporre una diversa narrazione:la forma si fa contenuto nel monumento e nel film – tradendo persino l’essenzialità anticelebrativa del Bauhaus che infatti i nazisti odiavano.
Il nome di Corbet ha rimbalzato nei pronostici e in ogni «desiderata» critica o quasi per il premio principale e si porta a casa invece il Leone d’argento. Il (mio) film del cuore è invece Queer, per me il nuovo e commuovente lavoro di Luca Guadagnino è il più potente della Mostra e il più profondamente rivoluzionario per quell’autentica libertà formale che è – e non diventa – il suo contenuto, oggi preziosa laddove si ingabbiano sguardi e cuori nell’arte e nella politica.
Il terreno di Guadagnino è il cinema ma quanto respiro ci lascia contrariamente alla dichiarata necessità di Corbet che soffoca fra le sue metafore come un cuscino in faccia in piena notte.
La prima frenetica sequenza di The Brutalist è quella di una rinascita la sessualità, fluidi e ferite come simboli è uno dei morivi ricorrenti. Toth è impotente, al bordello e con la moglie, che lo raggiunge in America, anche lei una sopravvissuta come la loro nipote giovane e muta mentre la donna giornalista nel suo paese, coltissima, è sulla sedia a rotelle. Le sue ossa non hanno retto la denutrizione, si sono sbriciolate.
Il dolore, le violenze di ciò che hanno visto e subito, ciò che non può essere detto, nominato, tantomeno mostrato: l’invisibile (il mai dimenticato carrello di Kapò) è espresso da quella carne e anima rotti per cui l’illusione della rinascita è un tradimento, Laszlo finisce a spalare carbone e il suo unico amico e un african american (Isaac de Bankolè), si fa di eroina, non ha una casa. Ma il riccone che lo aveva cacciato grazie a lui ha avuto gli onori del glamour così torna e lo ingaggia: avrà un alloggio, dei soldi, nella sfida con sé di realizzare qualcosa che sembra destinato all’incompiuto.
Può l’artista resistere al committente? O è destinato a soccombere diventando anche lui merce? Il capitale stupra, sodomizza, indifferente alla bellezza delle cose, del marmo di Carrara, alla Resistenza che è pure quella della materia. L’Onu intanto ha dichiarato la fondazione dello stato di Israele per tutti gli ebrei che avranno finalmente il loro paese. Il sionismo impone la sua parola, come la nipote di Toth che l’ha riacquistata e decide cosa vuol dire e cosa rappresenta la sua opera.
Nel padiglione israeliano nei nostri giorni si celebra l’arte di Toth. Lui vecchio e muto sulla sedia a rotelle non parla più, è quel sionismo da cui aveva cercato di sfuggire, che si è preso la narrazione del suo lavoro e della memoria collettiva prorpio come il governo israeliano continua a fare per motivare le proprie azioni in nome di un’ «innocenza assoluta».
Potremmo pensare che è questa cancellazione della cultura novecentesca e dell’essere ebreo pre-guerra da parte delll’Europa e del sionismo sia la materia di Corbet. È una direzione possibile ma forse non quella più evidente, e nelle molte ambiguità potrebbe rimanere solo un desiderio.
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