Visioni

La missione (fallita) della brigata d’assalto della destra

Francesco Gheghi in «Familia»Francesco Gheghi in «Familia»

Fasciomovie Il nuovo (e vecchio) fascismo declinato in lungometraggi e serie presentati alla Mostra

Pubblicato circa un mese faEdizione del 8 settembre 2024

La missione della brigata egemonia di destra al Lido è stata disastrosa su tutta la linea. Magra consolazione. Iniziata con il red carpet di Sangiuliano e sua moglie tra i mostri revenant di Beetlejuice Beetlejuice, è stata suggellata dalle risatine in sala all’apparizione della scritta «Ministero della Cultura» in fascio-font come gli altri titoli di testa di M – il figlio del secolo, la serie tv presentata in anteprima quasi in chiusura della Mostra, ben prima delle dimissioni. La medesima scritta ci sarebbe stata con con qualsiasi ministro, intendiamoci, ma il fatto che Sangiuliano nella sua ultima lettera si lamenti della «profonda inimicizia» che gli ha attirato l’aver toccato il sistema dei contributi al cinema, regala allo sberleffo presunto una minima consistenza.

QUANDO il regista Francesco Constabile, nel suo melodramma periferico ultrarealista Familia, tratto dalla vera storia del parricida Luigi Celeste, segue il protagonista nella scena dell’affiliazione a un gruppo di picchiatori palestrati neonazi, non possiamo non pensare ai filmati di Fanpage sui neofascisti romani, girati prima dell’estate con la telecamera nascosta. Specialmente quelli dei concerti, cinghiamattanza e duce-duce, confusi e fuori fuoco, che a pensarci bene hanno rappresentato la prima vera crepa nell’egemonia social della destra. E adesso a quella minacciosa riga nella biografia del neoministro della cultura Giuli, universitario militante di Meridiano Zero negli anni ’90, gruppo che lascia dietro di sè più di un sospetto sullo stile e i metodi.

Il neofascismo borgataro in Familia è un’ancora di salvezza di un figlio per un padre che non c’è, a lungo in galera per aver massacrato di botte la moglie, patologicamente violento. È una versione mostrificata del patriarcato («siamo uguali io e te», dirà lui nella drammatica scena finale), lo stesso patriarcato del quale di solito i giornali e i talk di destra sono abituati a negare l’esistenza. A parti invertite in Jouer avec le feux, ancora un melo realista, Vincent Lindon è il padre ex sindacalista e vedovo, incapace di impedire a un figlio scapestrato dall’aderire a un gruppetto di hooligan nazi.

LA DERIVAZIONE dei fascio-movie da storie vere spegne i sociologismi, lascia in piedi almeno la coerenza narrativa. Il fatto che l’organizzazione suprematista di Bob Matthews negli anni ’80 raccontata in The Order dal regista Justin Kurtzel si chiamasse Fratellanza Silenziosa ci suggerisce una parola chiave nell’immaginario di destra, fratelli, ci riporta sul terreno del sangue e della famiglia. Matthews, l’attore Nicholas Hoult, sposò una ragazza che non poteva avere figli e ne ebbe uno da un’altra ragazza del gruppo. Nel film gli fa da simbolico contraltare la solitudine e la famiglia lontana (forse devastata, non sappiamo) del cacciatore di nazisti Jude Law, l’agente dell’Fbi Terry Husk.

In M, il Mussolini di Luca Marinelli tiene a casa la famiglia, come si sa. Assalta segretarie e cameriere. Parla continuamente in macchina al pubblico: guitto teatrale (anche troppo), un Don Giovanni (e Cesarino Rossi il suo sorprendente Leporello), a suo agio all’opera, sui palchi dei comizi, dentro l’obiettivo del nascente cinema, contiene già in sé tutte le caricature e i suoi epigoni: Totò e Trump. Sullo sfondo, gli squadristi menano al ritmo della techno di Tom Rowlands dei Chemical Brothers, il che è politicamente discutibile (ma pure il rave appartiene ai fantasmi della storia di questo governo). Luogo comune delle serie tv è quello di rovesciare continuamente le attese, costruire amabili assassini e detective infami, rompere la linea del tempo, essere gratuitamente violenti. Detta del fascismo però, quest’ultima è una banalità un po’ fastidiosa.

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