«Niet, niente giornalisti, nié pressa, di qui non si passa». Il soldato al posto di blocco scuote la testa, ci restituisce i documenti e ci fa cenno di fare dietrofront. Dove sono i russi? Non lo sa nemmeno lui, ma la sensazione è che siano fin troppo vicini.

Il villaggio di Pokrovs’ke, che fino a due settimane languiva nel cuore delle retrovie, oggi si è trasformato in un campo di battaglia. Volodymyrivka è già caduta, così come Pylypchatyne e Trypillya. E Klynove? «Pidisiat i pidisiat», ci dicono, cinquanta e cinquanta.

SIAMO ALLA PERIFERIA EST della città di Bakhmut. Da qui parte la lunga autostrada che collegava il Donbass occidentale con la città di Severodonetsk assediata dai russi – «la nuova Mariupol», come l’ha soprannominata la stampa di mezzo mondo. Bakhmut dista una quarantina di chilometri da Sloviansk e altrettanti da Kramatorsk, e il fatto che le truppe di Putin siano già arrivate fin qui – come testimoniano gli incessanti colpi d’artiglieria, la presenza di campi minati lungo le strade e il continuo afflusso di truppe e carri armati – decisamente non è un buon segno.

Lo ha ammesso apertamente lo stesso presidente Zelensky, in un discorso tv di due giorni fa: «La situazione più difficile è nel Donbass – sono state le sue parole – Nessuno, prima dell’esercito russo, aveva portato tanta distruzione nel Donbass».

Al momento, oltre che a Severodonetsk – a est – e nella zona di Bakhmut – a sud – i reparti di Putin stanno facendo pressione anche sul fronte settentrionale. Ieri sera i soldati di Kiev avrebbero definitivamente abbandonato la cittadina di Liman, che per settimane era stata uno dei simboli della resistenza a nord di Sloviansk.

RITIRANDOSI, i reparti sconfitti avrebbero fatto salatare l’unico ponte ancora transitabile sul fiume Severskij Donetsk, che coronava una piccola diga in cemento. Non ci vuole l’acume di uno stratega per comprendere quale sia la strategia del Cremlino: stringere il Donbass in una grande tenaglia, spezzare le vie di rifornimento e chiudere in una sacca tutti i reparti nemici. È quello che sta succedendo a Severodonetsk, la cui capitolazione secondo molti è solo questione di giorni.

L’ormai ex capitale dell’oblast di Lugansk è oggi assediata su tre lati. L’unico ponte d’accesso ancora intatto – o meglio, ancora in piedi – si trova alla periferia nord-ovest, a poche centinaia di metri dalle postazioni russe. Per raggiungerlo e superarlo, però, bisogna percorrere diverse decine di chilometri in piena campagna – spesso allo scoperto – fino alla città di Sivers’k, anch’essa insidiata dalle truppe avversarie.

E poi via, per strade sterrate ingombre di camion e carri armati, fino a Lishichansk, sempre sotto la mira degli artiglieri di Mosca. Da qui deve transitare ogni cosa: i rifornimenti militari, i viveri, l’acqua, i feriti e i profughi in fuga – almeno finché i russi non decideranno di strappare anche questo ultimo cordone ombelicale.

È QUELLO che hanno già fatto, del resto, conquistando la famosa autostrada Bakhmut-Severodonetsk, la cui caduta, tre giorni fa, ha reso ancor più difficile la vita agli ucraini. Oggi a Severodonetsk si combatte casa per casa.

I reparti di Putin sono entrati in città a est e a sud, mentre le loro artiglierie lavorano soprattutto da nord. Ieri sera il magazzino degli aiuti umanitari – tra le cui mura di cemento sono trasportati ogni giorno decine di civili in fin di vita – è stato colpito da alcuni proiettili. Quattro volontari sono rimasti feriti, uno in modo grave.

IN DUE SI SONO RIFIUTATI di farsi trasportare in ospedale e hanno chiesto di restare lì, a compiere quello che dovrebbe essere il dovere di ogni essere umano – tendere la mano al prossimo, non ammazzarlo. Per quanto potrà ancora resistere Severodonetsk? Alcuni reparti ucraini – esasperati dal massacro – avrebbero già minacciato di arrendersi, ma c’è anche chi è intenzionato a resistere a oltranza.

Se così fosse, il parallelismo con Mariupol potrebbe persino rivelarsi appropriato. All’estrema periferia ovest della città, con alle spalle il fiume e l’ultimo ponte superstite, c’è un grande complesso industriale di epoca sovietica. Non si chiama Azovstal, ma Azot.

Potrebbe essere questa l’ultima roccaforte dei difensori di Severodonetsk? Alla Azot ci siamo stati circa dieci giorni fa, quando gironzolare per la città sotto assedio era ancora qualcosa di fattibile. Abbiamo visitato i bunker attigui alla fabbrica, nelle cui viscere vivevano circa 200 civili impauriti – perlopiù anziani, donne e bambini.

CHE NE SAREBBE DI LORO, se l’ultima battaglia dovesse svolgersi proprio laggiù? È una domanda che si stanno ponendo in tanti, e non solo a Severodonetsk. A est di Bakhmut i villaggi sono ancora pieni di civili.

In molte zone non c’è più né acqua, né luce, né gas, ma la gente non ha alcuna intenzione di andarsene. Alla canonica domanda «Kak situazia?», la risposta è sempre la stessa: «Ploha». Le cose, cioè, vanno sempre peggio. Vadim, un abitante di Bakhmut, ha appena finito di seppellire otto suoi vicini di casa.

Era ora di pranzo e le famiglie erano sedute a tavola, quando un proiettile d’artiglieria russo ha centrato in pieno il condominio. Addio pranzo e addio famiglie. «Proprio a cento metri da noi si era piazzata una batteria ucraina – racconta Vadim – Credo che quelli volessero beccare i nostri, forse hanno soltanto sbagliato mira».

DI STORIE SIMILI nel Donbass ne abbiamo ascoltate parecchie, su un fronte e sull’altro. Un tank prende posizione in un’area residenziale, apre il fuoco e poi si eclissa; il nemico risponde al fuoco e inevitabilmente colpisce qualche palazzo. La propaganda afferma: «Lo vedete? Il nemico spara sui civili». Cose che succedono, quando si comincia a fare la guerra.