Tana Gilbert

«Mi sono chiesta cosa accade quando una madre va in prigione, considerato che in Cile il 92% della popolazione femminile fa figli e più della metà di loro passa almeno una volta per il carcere, quasi sempre per traffico di droga. Un’attività che spesso serve proprio a sostenere l’economia famigliare» spiega Tana Gilbert, classe 1992, a proposito del suo primo lungometraggio Malqueridas presentato alla Settimana della critica. Un film girato all’interno delle carceri cilene dalle stesse madri con i telefoni cellulari, nei momenti rubati di intimità e gioco con i loro figli, ma anche nella sofferenza della separazione o nelle occasioni di convivialità e affetto con le compagne di detenzione. Abbiamo incontrato al festival Tana Gilbert e Karina Sánchez, protagonista del film con la sua voce narrante, donna che ha vissuto sulla propria pelle le carceri cilene.

Cosa vi ha spinto a realizzare un film sulla maternità in prigione?

Tana Gilbert: È legato alla mia storia personale, mio padre è stato in prigione negli Stati uniti quando ero una bambina, e mia madre partì per prendersi cura di lui per circa un anno. L’ho saputo solo quando ero già un’adolescente, ma il carcere è sempre stato un argomento presente nella mia famiglia. Questo interesse mi ha portato poi a raccogliere materiale girato all’interno delle prigioni, un processo che è andato avanti per sei anni, alla fine avevamo un migliaio di video da parte di tantissime donne.

Karina Sánchez: Non ci sono strumenti concreti per crescere i bambini per una madre che è dietro le sbarre, né per costruire un rapporto con loro. Sono previste due visite a settimana, ma se fuori non c’è una famiglia che si prende il compito di portare il bambino, possono passare anni senza vederli. Non c’è nessuna istituzione che si preoccupa di ciò o di come vengano cresciuti in assenza della madre. Il film è un modo per visualizzare tutto questo.

Era legale filmare all’interno?

T.G.: Quando abbiamo iniziato non era illegale possedere un telefono in prigione, ora lo è, ma già allora c’era un protocollo interno della polizia che lo proibiva. Per questo non abbiamo inizialmente informato la polizia del film perché temevamo che si potesse ripercuotere sulla situazione delle detenute che dovevano uscire da lì a poco, come Karina.

Avete unito insieme le storie di diverse madri, un unico filo narrativo è poi costituito dal suono, come ci avete lavorato?

T.G.: Era importante fare un film collettivo perché ogni madre ha la sua particolare esperienza, anche se spesso affrontano simili ostacoli e violenze. Karina è come se fosse la portavoce, unendo momenti della propria vita con quelli vissuti dalle sue compagne di cella o da altre donne. Collegare il suono con le immagini è stato un esercizio cinematografico e un modo per ricordare allo spettatore che non ha a che fare direttamente con la realtà ma con una costruzione, o forse meglio, con qualcosa che si trova a metà strada tra loro.

Un aspetto che mi ha colpito è che il carcere sembra sfidare la concezione tradizionale di famiglia, dando vita a diversi tipi di legami.

K.S.: Spesso in prigione si è abbandonate per molto tempo, magari il padre dei tuoi figli o il tuo fidanzato smette di venire ai colloqui e ti senti totalmente sola. Ma vicino a te ci sono donne che stanno affrontando esattamente la stessa situazione e sanno come ti senti. Hai tanto amore e affetto che non puoi dare ai tuoi famigliari e che inizi a diffondere tra le persone intorno, con nuovi legami che si formano. Oltre alle relazioni d’amore tra donne ci sono situazioni che ricordano il rapporto madre-figlia. E questa mama ha diverse «figlie», che diventano come delle sorelle l’una per l’altra.

Guardando il film sembra che queste persone paghino colpe non loro: spacciano perché non hanno scelta, vengono poi incarcerate e separate dai figli.

T.G.: È come se queste donne avessero tre condanne: una è quella dei tribunali, un’altra è quella sociale, perché è come se una madre dovesse essere una persona esemplare ed è sconveniente pensare che possa delinquere. Poi c’è quella più emotiva e intima delle donne stesse, che soffrono molto per i sensi di colpa. È come quindi se la condanna non finisse mai.

K.S.: Quando sono stata libera per la prima volta avevo trovato lavoro in un supermercato. Era precario ma stavo andando bene e quindi mi avevano proposto una promozione. In quel momento però hanno scoperto dei miei precedenti e hanno deciso di licenziarmi. In queste situazioni non si è più motivate a cercare lavoro, e spesso l’unica via per sfamare la famiglia è quella di tornare a delinquere. È un circolo vizioso.

T.G:: Proprio per questo il film ha un andamento circolare, perché è come se tutto fosse destinato a ripetersi all’infinito.