Per Theresa May e il suo governo di minoranza, impegnati in una delicata fase di passaggio delle negoziazioni sulla British Exit a 17 mesi dall’epocale referendum, quella di ieri era una giornata make or break (o la va o la spacca): bisognava raggiungere l’accordo capace di sbloccare la fase 2 del negoziato su cui Londra e Bruxelles si erano arenate da mesi e che si dovrebbe aprire a metà dicembre. A Bruxelles, dove la premier britannica era a colazione con Jean-Claude Juncker, il clima era propizio. Non abbastanza però:  se oggi quell’accordo è più vicino, permangono – e notevoli – delle riserve.

IN MATTINATA Michael Barnier si era detto molto ottimista e gli aveva fatto eco lo stesso Donald Tusk; il Times dava in prima pagina l’accordo come raggiunto al 90%. Poi è arrivato l’anticlimax: la colazione di lavoro fra May e Jean-Claude Juncker non è stata risolutiva come sperato. La stessa premier, alla fine dei lavori, ha ammesso che «restano un paio di questioni su cui ci sono differenze», anche se si è detta «fiduciosa» che una svolta sarà raggiunta entro la settimana. La magagna stavolta viene dal Dup, gli unionisti nordirlandesi.

L’immensa mole negoziale si divide in due fasi: la Brexit propriamente detta – i modi e i termini della separazione – e quella post-Brexit, la negoziazione sull’assetto dei rapporti commerciali fra la Gran Bretagna «fuoruscita» dall’Ue e quest’ultima. Bruxelles è stata adamantina: non ci sarà nessun accordo commerciale prima di aver deciso i termini del divorzio. Da qui lo stallo: May insisteva per portare avanti le due fasi in contemporanea, necessità impostale dalla fragilità della sua maggioranza.

MA IL DIVORZIO propriamente detto, la fase 1, è stato finora rallentato da quattro ostacoli principali: lo status dei 3 milioni di cittadini europei in Gran Bretagna post-Brexit, il confine nordirlandese, l’importo del conto del divorzio (il cosiddetto Brexit bill) e il ruolo della Corte di giustizia europea.

Finora May ha dovuto conciliare su quasi tutto pur di evitare quella Brexit «dura» (fuori dal mercato unico e fuori dall’unione doganale) che (quasi) tutto il business nazionale teme come la peste: pagherà il conto salato del divorzio – 50 miliardi di euro – e riconosce il ruolo legale della Corte di Strasburgo sugli europei residenti, provocando le ire funeste di ultrà euroscettici del suo partito, soprattutto Boris Johnson e Michael Gove, che le si potrebbero rivoltare contro in ogni momento.

MA IL PROBLEMA PIÙ GRANDE è quello del confine fra Irlanda del Nord e Irlanda. L’introduzione di un confine fisico fra i due Paesi – corollario della Brexit – non la vuole nessuno, anche perché significherebbe gettare alle ortiche il Friday Agreement e gli accordi di pace. Così May ha ceduto sull’inclusione di Belfast nell’«allineamento normativo» cui aderiscono gli altri Paesi dell’Ue, in sostanza un confine immateriale che non rischi di riaccendere il conflitto. Introdurrebbe la prospettiva che anche la stessa Gran Bretagna finisca per adottare nel suo complesso la situazione nordirlandese, vanificando sostanzialmente la stessa Brexit. Per questo ieri la sterlina si è risollevata.

Ma ciò ha provocato la levata di scudi del Dup di Arlene Foster che sostengono il governo di minoranza di May e di cui quest’ultima è ostaggio: per loro, i rapporti fra Gran Bretagna e Ue devono essere identici a quelli tra Ue e Irlanda del Nord. Temono che, vedendo equiparare l’Irlanda del Nord all’Irlanda anche solo dal punto di vista commerciale rispetto all’Europa, Dublino possa approfittarne per avanzare pretese a sua volta unioniste, “panirlandesi”, che puntino a recuperare l’unità territoriale e nazionale dell’isola.

COME SE NON BASTASSE, May è sotto tiro anche a Londra ed Edinburgo. Sia la capitale, sia la Scozia si erano pronunciate a favore della permanenza; ora, naturalmente, vedendo le concessioni fatte ai nordirlandesi, vorrebbero uguale trattamento, come confermato sia da Sadiq Khan che da Nicola Sturgeon. Entrambi puntano a un simile accordo “su misura”, il che a sua volta fa inorridire gli ultrà euroscettici, che premono per un’uscita unilaterale, “dura”, del Paese nella sua interezza. Il rischio, insomma, per May non è solo a Bruxelles, ma anche a Westminster: basta uno scarto inconsulto da parte di brexiteers o unionisti per far cadere il governo.