Per quanto nelle culture di molti popoli indigeni la foresta sia da sempre pensata come somma di alberi persone, che seppur di nazioni diverse cooperano in pace per una buona sorte condivisa, soltanto da pochi decenni si è arrivati a intravedere, scientificamente, una loro vita sociale fatta di connessioni e dialoghi a partire da una capacità specifica di percepire l’esterno e relazionarsi tra loro.
A lungo si è ritenuto invece che essi interagissero attraverso la competizione per la luce e le risorse e che soltanto questa dialettica, cruciale per la selezione naturale, plasmasse le foreste in una logica evolutiva.
Ancora a fine anni novanta non era chiara l’importanza che anche la cooperazione svolgeva nelle foreste. Che si andavano invece rivelando pervase da centinaia di chilometri di micorrize, reti sotterranee di radici in simbiosi con funghi.
Un reticolo di collegamento tra alberi, anche di specie diverse, non più individui isolati, ma in una interdipendente costellazione, con snodi e connessioni, a far da tramite per lo scambio di messaggi – avvisi di allerta – e sostanze nutrienti.
Di questa rivoluzione dello sguardo rivolto al sottosuolo e del suo travagliato procedere per via di intuizioni, vicoli ciechi e centinaia di sperimentazioni, ci racconta Suzanne Simard, nel suo L’albero madre (Mondadori, pp. 447, € 24,00).
Scartando tra gustosi episodi di una biografia esistenzial-scientifica e puntuale descrizione di ipotesi indiziarie e articolati esperimenti, l’autrice, affermata ecologa forestale all’Università della British Columbia, in Canada, ma a lungo, anche per origine familiare, partecipe del mondo forestale, racconta del modo in cui si fa ormai chiaro come gli alberi, correlandosi e condividendo energia e risorse, nonché adattando i propri comportamenti al funzionamento della comunità, nel mantenerla prospera perseguano propri egoistici interessi.
Impegnata fin da giovanissima nel lavoro stagionale come taglialegna, Suzanne fu a lungo ricercatrice critica presso il servizio forestale, che, se da un lato in quegli anni cominciava a riconoscere il ruolo della biodiversità in foresta, dall’altro, sulla scia indicata dalla rivoluzione verde in agricoltura, propendeva per politiche intese al profitto, sostenendo che una più rapida crescita degli alberi da taglio prevedeva l’abbattimento delle latifoglie autoctone, colpevoli di sottrarre risorse ai pini con i quali convivevano.
Dalla sega trasversale, al giratronchi per rotolarli nei canali, la Simard passerà alle sonde a neutroni o agli analizzatori a infrarossi per misurare livelli e quantità di acqua presenti nel terreno, pressione idrostatica dello xilema quantità di luce, tasso di crescita, presenza di azoto.
Tra maternità, malattie, separazioni, e ancora indagini, conferenze, documentari, sullo sfondo delle grandi proteste contro i disboscamenti, ecco, nell’agosto del 1997, la pubblicazione su «Nature» del seminale articolo proposto come storia di copertina che, con efficace, tempestiva sintesi, evoca un inedito wood-wide-web.
Per arrivare poi alla definizione del concetto di Albero madre, elemento di snodo di quelle reti forestali ctonie, in grado di distinguere tra consanguinei ed estranei, e favorire tuttavia l’intera comunità dove peraltro cresce la loro prole.
Aiutando le giovani piante a inserirsi nel giardino fungino dei più anziani, vivendo, magari persino per decenni, nella loro ombra e trasferendo risorse agli altri individui nella fase terminale della propria vita. Il tutto in un più ampio quadro di interazioni.
Un dare-avere a doppio senso, diverso magari con l’avanzare delle stagioni, verso un equilibrio a lungo termine, riflesso come idea di fondo perfino nel film Avatar del 2009.
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