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«Superpower», Sean Penn testimone dell’unità di Zelensky

«Superpower»,  Sean Penn testimone dell’unità di ZelenskySean Penn e Volodymyr Zelensky in «Superpower»

Berlinale Presentato il film che racconta da vicino l’invasione russa, ma l’attore statunitense prende troppi spazi

Pubblicato più di un anno faEdizione del 19 febbraio 2023

«Il presidente Zelensky ha grande cuore e coraggio, c’è un bullo che minaccia lui e il suo Paese ma non è un tipo che si lascia intimidire. Dobbiamo aiutare l’Ucraina con armi di precisione e a lungo raggio, e l’hardware necessario a difendersi. Ho fatto questo film perché era necessario, non è un film di parte, in questa guerra non c’è alcuna ambiguità. Non farei mai un film su Putin, è un criminale, che ha già parlato abbastanza». Così Sean Penn nel corso dell’incontro affollatissimo con la stampa a Berlino, dove ha presentato in anteprima, all’interno di Berlinale Gala, Superpower, il film che ha diretto con Aaron Kaufman sulla guerra in Ucraina, e soprattutto sulla figura del presidente Zelensky, che all’indomani dell’invasione russa si è trovato di fronte una sfida con cui ha mutato la propria immagine e la percezione di sé agli occhi del mondo, e dei suoi cittadini.

È un film necessario, in questa guerra non c’è alcuna ambiguità. Non lo farei mai su Putin, è un criminale che ha già parlato abbastanza

L’ATTORE e regista americano lo incontra, ne ricostruisce la storia pubblica: attore, comico, presidente nella finzione (in Servitore del popolo) prima di diventarlo per davvero. Una vittoria a cui forse non credeva neppure lui, come non ci credevano anche molti di coloro che lo avevano votato: dubbio che con l’inizio del conflitto evapora con la sua tenace resistenza portando anche Penn a un cambio di registro rispetto al suo progetto originale, probabilmente più focalizzato su Zelensky come esempio più positivo di Trump, un uomo di spettacolo che passa alla politica. Ma tutto cambia e Zelensky riesce a mettere in moto quel «senso della comunità» che Penn sottolinea più volte. Dice: «Nessuna delle persone che ho conosciuto voleva prendere le armi ma sono stati costretti a farlo. Zelensky è riuscito a tenere insieme i suoi cittadini che sono molto uniti tra loro nella lotta al nemico».

Il film salta temporalmente tra prima e dopo l’invasione russa (probabilmente delle scene erano già state realizzate), prova a ridefinire oltre alla figura di Zelensky le situazioni di scontro già esistenti: si torna così al 2013, alla rivolta di Piazza Maidan, con la caduta di Yanouchenko, il presidente ucraino vicino a Putin, l’annessione violenta da parte della Russia della Crimea, la crescita dei movimenti di indipendenza dal controllo russo. Al materiale d’archivio, quasi tutto televisivo, si alternano incontri e opinioni anche questi in momenti temporali diversi: analisti americani, il sindaco di Kiev, giornalisti ucraini, altre figure meno interessanti – e francamente l’elogio di Newt Gingrich poteva risparmiarlo.

ALL’INIZIO del conflitto, lo scorso febbraio, Penn arriva a Kyiv, parla con Zelensky, riparte, cerca di passare nel panico generale il confine polacco. E torna in Ucraina, nel corso dei mesi, rivede Zelensky, che è ormai è quella figura divenuta mondialmente familiare, si spinge fino al fronte, tra i soldati in prima linea; vaga nelle case distrutte, fra gli appartamenti sbriciolati, le vite cancellate, i morti, l’abbandono in quella che è, nel finale, la parte più interessante del lavoro, laddove la sua presenza si stempera nella prepotenza dolorosa di quel paesaggio umano intorno a lui. Che invece è e sarà onnipresente in una costante fantasia narcisista di messinscena di sé che appare decisamente fuori posto in quel contesto – sfiorando il fastidio nelle riprese reiterate di se stesso che fuma, beve, si strugge e sembra essere su un set di un film di guerra spostando costantemente l’attenzione da ciò che accade.

Diciamolo, Superpower non è un bel film, è la sua funzione mediatica, di sostegno alla resistenza ucraina attraverso l’attore premio Oscar, ad essere più importante malgrado la forma scelta. Lo sa anche Zelensky, che al terzo incontro con Penn rimprovera apertamente l’America e gli altri Paesi di non offrirgli un sostegno adeguato – «Non potrò mai volare con un’ala sola» dice – utilizzando al massimo la visibilità che gli viene offerta.

Poteva fare meglio? Certo. Quello di Penn è un film da attore e di establishment: ma al di là della funzione mediatica di cui si è detto, c’è da chiedersi quanto e se aggiunge alla narrazione dell’Ucraina, perché tutto ciò che è sovraesposto rischia sempre di anestetizzare l’attenzione. Perché oltre quelle buone intenzioni dichiarate da Penn, e senz’altro sincere, dovrebbe esserci un minimo di sforzo nell’avvicinarsi a situazioni così importanti e tragiche, e mettersi in gioco anche sul piano della forma.

Due scene tratte da «Ucraina» di Piotr Pawlus e Tomasz Wolksi

PER TROVARE un punto di vista diverso, che guarda al vissuto quotidiano, si può andare al film di Piotr Pawlus e Tomasz Wolksi In Ucraina – presentato al Forum. Il titolo, spiegano i registi con l’uso della particella «in», sta a sottolineare l’indipendenza del Paese. I due registi polacchi tracciano un lungo percorso che li porta anche nei luoghi ora al centro di attacchi violenti, da Kyiv a Kharkiv, a partire dalle immagini più diffuse dall’informazione di ciò che accade: le strade colpite dalle bombe, le case distrutte, i tank russi bruciati. Il loro obiettivo è andare oltre, entrare in profondità nell’esperienza del conflitto restituendo ciò che moltissimi ucraini e ucraine vivono ormai da un anno: le cene nei rifugi, le bombe che cadono all’improvviso alle fermate degli autobus, i nascondigli dei soldati nei boschi, ciascuno di loro sa ormai riconoscere il rumore delle artiglierie, se sono le loro o quelle dei nemici. Le tombe che si moltiplicano giorno dopo giorno.

Nessuno si offre alla macchina da presa in quanto tale, la vita in apparenza scorre nelle sue occupazioni come sarebbe senza. Insieme agli essere umani parlano i luoghi, quella distruzione che è ovunque, l’abbandono di centri un tempo abitati dove sono rimasti solo i cani, divenuti all’improvviso randagi, che lottano tra loro per il cibo. Nelle pietre che erano appartamenti scivolano come ombre, un dettaglio che ha in sé la violenza assurda di questa guerra.

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