Il patriottismo, di questi tempi, si va declinando anche in una dimensione economica. Il made in Italy, il Fondo sovrano, e una certa malcelata soddisfazione per un possibile superamento della Germania, ne sono i sintomi più appariscenti. Viene costantemente sottolineato il fatto che il Belpaese stia crescendo oltre le aspettative, enfatizzando in particolare la forte crescita del comparto legato al turismo. Settore a cui il governo concede un bonus di 500 milioni per sostenerne l’occupazione, sgravando straordinari e notturni fino al 15% per l’intera estate.

Il settore tira, insomma, i salari sono bassi, non si trova manovalanza, il governo si inventa l’ennesimo bonus destinato alle imprese. Una fotografia dei paradossi della crescita italiana. Patriottismo quasi sempre fa rima con retorica. In campo economico la regola non viene smentita. Così scopriamo che il neoministro a quelle che un tempo erano le attività produttive (ora Made in Italy) dichiara che «oggi siamo la locomotiva d’Europa». Una guerra a colpi di decimali con Berlino che non cresce e Roma che registra cifre da prefisso telefonico. Non solo una magra consolazione, ma un’illusione.

L’industria italiana, infatti, in una sua parte significativa è integrata alla catena di subfornitura di quella tedesca. In particolare nell’automotive, ma non solo. Più in generale le esportazioni italiane rappresentano circa il 30% del Pil. La Germania è il principale paese destinatario delle merci italiane. Gioire delle disgrazie di questa parte di Europa non costituisce un approccio lungimirante.

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Su queste pagine abbiamo in passato scritto che il ritorno della geopolitica potrebbe costituire per l’Italia una nuova occasione per dare fiato alle esportazioni, occupando parzialmente gli spazi che verranno lasciati liberi a causa delle tensioni crescenti tra Occidente e alcuni dei cosiddetti paesi emergenti. Bassi salari coniugati con modeste specializzazioni per fornire merci a basso valore aggiunto a Stati Uniti e mondo occidentale in genere, questa potrebbe essere la prospettiva dei prossimi anni. Non proprio entusiasmante, ma pur sempre una prospettiva.

Se, però, si registra una contrazione di quella che storicamente è stata la vera locomotiva d’Europa, la Germania, ciò rischia di compromettere anche tale opzione. Forse non è un caso che per il quarto mese consecutivo si riduca la produzione industriale italiana, totalizzando ad aprile un -7,2%. Sul Sole 24 Ore Paolo Bricco afferma che «la manifattura italiana non sta bene. E se la manifattura italiana ha l’influenza, l’economia e la società hanno più di un raffreddore».

I limiti del settore non sfuggono: nanismo, modesta specializzazione, pochi servizi, assenza in settori tecnologici rilevanti, esportazioni basate sui bassi salari e non sull’innovazione di prodotto e di processo, ecc. Nonostante ciò l’industria rappresenta pur sempre il cuore dell’apparato produttivo del paese, ricoprendo una funzione essenziale nelle esportazioni.

Nel 2022 il settore industriale ha fatto registrare volumi di quasi 400 miliardi di euro, pari al 20,5% del Pil. In contrazione di circa un punto rispetto al 2021. Per dare il senso delle proporzioni il turismo rappresenta il 13% del Pil se si considerano per intero anche trasporti e ristorazione. Un conteggio sovrastimato in quanto questi ultimi segmenti non sono riconducibili unicamente al settore turistico che, altrimenti arriverebbe solo al 6% del Pil con un volume attorno ai 90 miliardi annui.

Insomma, forse più che gioire del decimale di punto di crescita rispetto alla Germania bisognerebbe avere la capacità di costruire un’azione pubblica, un piano che rilanci l’industria del paese all’interno di un contesto internazionale. Un piano che provi a far fare un salto dimensionale e settoriale, che da solo, in questi decenni, il capitalismo italiano ha dimostrato di non saper fare. Altrimenti ci resta solo la retorica patriottarda.