Sull’isola dei cani sono i ragazzini a salvare il mondo
Berlinale 68 Con «Isle of Dogs» di Wes Anderson si è aperta ufficialmente la sessantottesima edizione del festival. Con grana trasognata il film del regista americano rivela dolori e angosce contemporanee
Berlinale 68 Con «Isle of Dogs» di Wes Anderson si è aperta ufficialmente la sessantottesima edizione del festival. Con grana trasognata il film del regista americano rivela dolori e angosce contemporanee
Davanti al Berlinale Palast lo schermo rimanda l’immagine di Dieter Kosslick che spiega le linee della Berlinale 2018, la sua penultima dopo vent’anni, un tempo lungo nel quale Kosslick ha progressivamente modificato l’assetto del festival con l’inclusione al suo interno delle diverse sezioni – Panorama, Forum, anche se ognuna continua a avere direzioni artistiche e staff autonomi – e soprattutto con una crescita costante che lo hanno reso un grande evento spettacolare e di mercato per la metropoli e per i professionisti di tutto il mondo. Il passaggio non sarà semplice, gli interessi in gioco sono molti, e forse anche per questo in una lettera pubblica qualche mese fa i registi tedeschi di diverse generazioni hanno chiesto «il massimo della trasparenza».
Che festival sarà dunque questo numero 68, lo stesso numero dell’anno rivoluzionario di cui si celebra il cinquantenario, nella Germania che si avvia seppure tra molte incertezze alla riconferma del governo Merkel versione Gro-Ko? Impegno, confronto col presente, urgenza dell’attualità sotto al segno del movimento #Me Too – anche se proprio su questo c’è già una polemica per l’invito a Kim Ki Duk, accusato di maltrattamenti dalla sua attrice – e attraverso i film la ricerca di storie, narrazioni personali, esperienze e vissuti privatissimi che cinematograficamente ne restituiscano il sentimento.
È un desiderio privatissimo, ritrovare il suo amato Spots, che spinge il dodicenne Atari a fuggire e a volare su un minuscolo jet alla volta di quella che è diventata «l’isola dei cani», una terra postapocalittica intossicata da cumuli di rifiuti di ogni tipo. È lì che il sindaco Kobayashi Megasaki Citi (gattaro incallito), suo padre adottivo, ha deciso di deportare tutti i cani della città, quelli coccolati di famiglia e quelli di strada perseguendo uno sterminio organizzato che ha radici antiche, e che da sempre oppone i Kobayashi alla specie canina.
Isle of Dogs, il titolo di apertura della Berlinale, ha la grana trasognata che caratterizza i film di Wes Anderson (regista prediletto dal festival tedesco) anche quando parlano di dolori e traumi e ingiustizie crudeli. La sua isola canina è il posto degli esclusi, dei perseguitati, di chi diventa «clandestino» e perde tutto, a cominciare dalla propria identità sociale, e per sopravvivere in modo aberrante è costretto a lottare contro lo sconforto, a ritrovare in ogni singolo gesto un po’ di umanità. E i suoi rivoluzionari, chi ha ancora l’energia di scuotere il mondo sono i bambini, gli stessi che in Moonrise Kingdom fuggivano dalle regole degli adulti per scoprire una magia imprevedibile dell’esistenza che può durare solo se non viene anestetizzata nei codici che vogliono organizzarla. Alla repressione razzista del politico che cavalca con pericolosissima deriva autoritaria le paure dei suoi cittadini – i cani sarebbero portatori di una pericolosa influenza che li rende aggressivi – si oppongono uno scienziato non pazzo ma consapevole che con la precisione della ricerca scientifica smaschera la montatura, la sua assistente (con la voce di Yoko Ono) e soprattutto i giovanissimi studenti guidati da una ragazzina pure lei clandestina con la testa bionda di ricci che ricorda quella di Angela Davis..
Diviso in capitoli con flash-back che riportano a momenti del passato dei personaggi, Isle of Dogs seguendo la linea della ricerca di Spots di Atari aiutato da cinque cani nell’impresa tocca temi sensibili del nostro tempo: quel paesaggio quasi archetipico di rottami industriali ricorda nelle atmosfere i capannoni in cui vivono i marginali di Downsizing, il deserto di Blade Runner 2049 più che del primo Ridley Scott, i sotterranei di The Shape of Water o i terribili campi di concentramento per suini transgenici di Okja) in cui l’esclusione fonde esseri viventi e luoghi in un unico magma. I cani sono quelli che parlano inglese (con le voci di molte star tra cui Greta Gerwig, Bill Murray, Ed Norton, Frances McDormand, Harvey Keitel … e che peccato sarà il doppiaggio quando uscirà in sala in Italia), gli altri, gli «umani» vengono tradotti (non tutti) dal giapponese. Non è questione di un semplice «contenutismo», perché non è difficile immaginare in quei cani i migranti e i clandestini di oggi, o chi è respinto ai margini, folle sempre più numerose da una divisione del mondo sempre più gerarchica di ricchezze e miserie o nel sindaco le strumentalizzazioni dei politici: il punto è il cinema che condivide un sentimento del contemporaneo a cui prova a dare un’immagine guardando alla sovversione di generi – fantascienza, horror, fantasy … – che si accordano forse perché «preveggenti» all’epoca attuale.
In questo mondo salvato dai ragazzini Anderson (che ha scritto il soggetto insieme a Roman Coppola, Jason Schwartzman, Kunichi Nomura) riversa le sue passioni, l’umorismo delicato, l’ironia, la musica (di Alexandre Desplat) i colori e le trame di un universo fantastico che la scelta della stop motion rende narrativamente più libero. All’inizio, lo ha raccontato lui, l’idea era quella di fare un omaggio a Akira Kurosawa, e anche a Miyazaki, e al Giappone di cui percorre le arti, il sumo e il teatro kabuki, i ragazzini di scuola con le loro divise le stesse dei protagonisti dei pink film anni Settanta – a cui dedica un focus il Forum – porno rosa come lente della società e suo rovesciamento. Atari e i suoi amici, umani e cani, ci dicono che è possibile. Magari con un po’ di rieducazione all’umanità.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento