Sulla terra leggeri, la memoria dell’amore, il corpo del cinema
Locarno 77 L’esordio di Sara Fgaier in concorso, un viaggio intimo nel Novecento e nella grana delle immagini
Locarno 77 L’esordio di Sara Fgaier in concorso, un viaggio intimo nel Novecento e nella grana delle immagini
Sulla terra leggeri si apre con qualche riga da Julian Barnes, «Siamo creature destinate al piano orizzontale, a vivere coi piedi per terra, eppure – e perciò – aspiriamo a elevarci». E la dimensione letteraria, non solo per il rimando all’autore e al suo Livelli di vita (Einaudi) attraversa il film, secondo italiano nel concorso locarnese che sin dal titolo suggerisce un movimento narrativo sui bordi delle cose, fra una realtà delle emozioni e quella di un quotidiano che non sempre vi corrisponde, che si fa trama di immagine, luce (le epifanie della fotografia di Alberto Fasulo), spazio, tempo, musica (di Carlo Crivelli) impressi nel calore della pellicola. È nella materia del cinema che la regista Sara Fgaier al suo esordio nel lungometraggio dopo un corto, Gli anni (2018), intorno al romanzo di Annie Ernaux e il lavoro come montatrice (lei stessa qui cura il montaggio insieme a Aline Hervé e Enrica Gatto) compone la sua narrazione di vite sospese, dolori inaccettabili, rimozioni e improvvise consapevolezze verso una rinascita, con dei nuovi inizi che saranno forse anche un diverso mondo. Il tempo che tesse gli aller retour della storia non è mai lineare ma col respiro di fratture, lampi, sovrimpressioni di esistenze possibili che il protagonista dispiega dentro sé stesso viaggiando nel proprio vissuto che non riconosce più, quasi si fosse sdoppiato, moltiplicato, fino a essere quello di qualcun altro.
Ma cosa racconta Sulla vita leggeri? Un uomo, Gian, professore di etnomusicologia (Andrea Renzi) all’improvviso perde la memoria. Non riconosce nessuno, la figlia Miriam (Sara Serraiocco), il nipotino (Elyas Turki): perché sono lì? E chi è quella gente davanti a una bara che lo abbraccia esprimendo vicinanza e dolore? Il lutto, da questo fugge Gian, la perdita della moglie che è stata il suo amore di sempre sin da una lontana notte davanti al mare con la promessa di ritrovarsi tre mesi dopo in Tunisia che lei non aveva mantenuta.
Un uomo con un’improvvisa amnesia, l’archivio dei ricordi, la pellicola
E POI? Un volto torna, si confonde, si fa moltitudine di volti femminili, altre fantasmagorie senza un nome. «Lo faccia ricordare» dice il medico a Miriam suggerendole di usare oggetti che possono scuotere questa sua amnesia. Ci sono i suoi vecchi diari, le parole di un ragazzo che gli continuano a dire di una ragazza amata, perduta, ritrovata anche se le pagine a un certo punto rimangono bianche. Chi è? Dove cercano di portarlo quelle esperienze altrui che gli appaiono nel sonno privo di riposo? Di sé l’uomo non sa nulla, è in fondo lui stesso una pagina bianca, ciò che è accaduto fin lì non ha una forma, in quell’insieme confuso c’è senz’altro qualcosa che gli appartiene ma come ritrovarne il senso intero – sempre che sia possibile – chiuso da qualche parte come è la stanza della casa immersa nel buio dove nessuno deve più entrare? Il mare è invece un colore luminoso e una promessa. Come il movimento da una parte all’altra delle rive, l’Italia e le città tunisine, e la trance nella musica che libera le emozioni dal controllo dell’io e che unisce anch’essa tradizioni e culture. Mentre fa ascoltare una registrazione di transe tunisina ai suoi studenti un’altra donna misteriosa appare sui banchi. Lo fissa, svanisce. Il tempo si contrae, si espande, si accartoccia, respira col cuore dolcezza, paura, lacrime. Ciò che si è e ciò che si può ancora essere, quel che si pensa perduto e che invece rimane per sempre in qualche angolo segreto, si deve solo riuscire a scoprirlo.
«Attraverso la ricerca dei suoi ricordi perduti, Gian affronta una domanda universale: esistiamo davvero senza amore? L’amore come specchio ultimo dell’esistenza: l’unico strumento per dare un senso alla nostra vita» scrive Fgaier nelle note di regia. Questo assoluto in cui il protagonista per ritrovarsi deve ritrovare l’amata, e come Orfeo farla rivivere ma nella sua memoria è il punto di partenza e la cifra formale su cui l’autrice costruisce la propria ricerca. Non si tratta – non qui almeno – di «scrivere» una storia d’amore (la sceneggiatura è di Fgaier insieme a Sabrina Cusano e Maurizio Buquicchio) ma di renderla visibile, di farla immagine prima che parola con cui dargli una voce. E questa memoria, che è quella dello sguardo, si fa pian piano intima e collettiva. Sono gli archivi, quei momenti fuori dal tempo di vite anonime e pure riconoscibili nell’esperienza di ciascuno, associazioni astratte di altri voli, piccoli segni di qualche altrove l’immaginario di un Novecento che si mescola alla vita di Gian ragazzo (bravissimo Emilio Francis Scarpa) e di Leila, questo il nome della sua amata, che assume anche lei diversi aspetti nei passaggi delle età – da ragazza è Lise Lomi.
AL PRIMO incontro vede già le loro fisionomie di adulti e di anziani, senza un prima e un dopo: tutto è lì all’improvviso, futuro e presente, in un legame che è stato e che mai finirà. È una bella affermazione autoriale questa di Fgaier, che sfugge ai generi e alle definizioni assumendo i rischi di una sperimentazione che fa vibrare le sfumature dell’emozionalità e lascia lo spettatore libero di seguire le sue piste. Ma Leila è un’aviatrice che vola sopra la terra, insegue il suo amato quando lui sfugge, sa essere vulcano e serenità, amante e complice dalla prima volta, con delicatezza e passione infinita. Volare, sospendersi, non essere ancorati. Non è solo un processo di elaborazione del lutto questo percorso ma prima ancora di libertà, e anche Fgaier come la sua meravigliosa Leila si libra nelle sue immagini per inventare un cinema possibile. Con amore.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento