«In Libia non ci voglio tornare mai più», esclama un giovane appena gli operatori umanitari di Emergency lo fanno salire sul gommone di soccorso. Un sospiro di sollievo lo tira soltanto dopo. Siamo nelle acque internazionali di fronte alla Tripolitania, in uno dei tratti di mare più mortali al mondo. Qui ieri la Life Support, impegnata nella sua diciottesima missione, ha salvato 200 persone.

Sono le 6.25 quando le radio delle 29 persone dell’equipaggio gracchiano all’unisono: il radar ha individuato delle imbarcazioni di migranti in pericolo. Casco, guanti, giubbotti di salvataggio: per i membri delle squadre di ricerca e soccorso passare da dentro il letto all’esterno della nave è questione di secondi. Sono due le barche «in distress», termine tecnico per indicare il pericolo in mare. Sono entrambe di legno, rompono la linea dritta dell’orizzonte che da tre giorni circonda a 360 gradi la Life Support, partita il 2 aprile dal porto di Augusta.

IN ACQUA VENGONO lanciati due rhib – Rigid hull inflatable boat, i gommoni di salvataggio – che operano sincronicamente durante il salvataggio, per due ore e cinque minuti. I movimenti dell’equipaggio sono precisi, mirati e coordinati mentre il sole sorge alle loro spalle. Non si può perdere tempo. Oltre le due imbarcazioni c’è un terzo gommone, con sopra tre uomini con il passamontagna, minacciosi. Non è chiaro chi siano, forse milizie libiche. Nessuno incrocia il loro sguardo e le operazioni di salvataggio continuano.

La tensione è alta dopo la recente notizia degli spari in direzione dei soccorritori di Mediterranea, esplosi da una motovedetta di Tripoli giovedì, durante il soccorso di una cinquantina di naufraghi. L’ennesima violenza della sedicente «guardia costiera», che nell’ultimo periodo si sta mostrando più aggressiva. In lontananza si intravede proprio una motovedetta libica. Il numero impresso sul fianco, il 658, dice che si tratta della stessa che se l’è presa con la Ong italiana: si chiama Fezzan, è un pattugliatore classe Corrubia, grigio, costruito per la guardia di finanza italiana e poi regalato ai libici.

IL SOCCORSO VA AVANTI. Per primi sono portati al sicuro i bambini. Subito dopo si capisce che le persone da aiutare non sono solo quelle visibili: c’è un secondo piano in una delle barche. Dentro un giovane è in stato di incoscienza. I compagni di viaggio aiutano a spostare il suo corpo per portarlo il prima possibile sulla nave dove lo attende il personale sanitario. «Ha ripreso conoscenza, ma rimane sotto osservazione», dichiara Sara Chessa, del team medico.

Le due barche, di 10 e 12 metri, hanno lasciato le coste della Libia la stessa notte, tra giovedì e venerdì, ma da due porti diversi: Sabratha e Zawiya. Per i migranti, però, il viaggio è iniziato molto prima. Malek è partito dall’Eritrea quando aveva 22 anni, oggi ne ha 26. L’ex colonia italiana è sotto il giogo di una dittatura, il paese è militarizzato, la leva obbligatoria è spesso a tempo indeterminato. «Quello che desidero di più è trovarmi in un posto sicuro, tranquillo. In Eritrea non posso tornare», spiega guardando il mare. Poi sorride, finalmente.

I TEMPI SONO stati più rapidi per Mohammed, 21enne, partito dal Bangladesh sei mesi fa. «Sono scappato da Dakka perché non sapevo come mangiare, c’è una povertà estrema – dice – Il mio sogno è che la mia famiglia un giorno mi raggiunga». Dopo la partenza ha attraversato Arabia Saudita, Egitto e poi Libia. L’espressione del suo volto cambia quando viene nominata quest’ultima. Una reazione comune a molti altri.

Tra i 200 soccorsi, 21 sono donne e 14 minori. Tra loro 8 non accompagnati. «Sono qui con mio fratello, vorremmo raggiungere dei parenti in Olanda – dice Fatima (nome di fantasia), un’adolescente di origine siriana – Vogliamo continuare a studiare, ma nel nostro paese ci sono guerra, fame, povertà».

MENTRE SCRIVIAMO i soccorritori della Life Support si stanno preparando a un terzo intervento. A metà pomeriggio è arrivata la richiesta d’aiuto da un’altra barca: si sa solo che è sovraffollata. Il fatto è stato comunicato alle autorità e si attendono istruzioni: il decreto Piantedosi ostacola e punisce le Ong che realizzano più di un soccorso. Si rischia il fermo della nave.

Questa volta, almeno, le persone in pericolo sono sulla rotta verso il porto assegnato dal Viminale. Un porto lontano, come ormai accade ogni volta: Ravenna. «Sono quattro giorni di navigazione in più – afferma Anabel Montes Mier, esperta capomissione che ha solcato il Mediterraneo in lungo e in largo con diverse Ong – Una prassi che aumenta il livello di sofferenza delle persone: si sarebbe potuto evitare assegnando una meta più vicina, in Sicilia per esempio».

NEL SUO PRIMO anno la Life Support, che ha già salvato 1.542 in totale, è stata costretta a trascorrere la metà dei giorni complessivi di navigazione nelle rotte verso i porti lontani. Distanze e attese che sguarniscono il mare dai soccorritori, mentre le persone continuano ad annegare.