«A piedi non si passa, è la regola». Se potessimo giudicare le relazioni tra stati solo in base al clima che si respira alle dogane, ne dovremmo dedurre che Ungheria e Ucraina non si fidano l’una dell’altra ma che nella pratica la necessità ha la meglio sulla diffidenza. Quella di Zahony, infatti, è l’unica frontiera occidentale ucraina dove non c’è un viavai costante di persone in un senso e nell’altro. Qui solo camion e di rado qualche macchina.

LA DIFFIDENZA nasce da lontano, l’estrema destra ungherese continua a considerare i territori della Transcarpazia come parte della Grande Ungheria che è stata smembrata dopo la fine della I Guerra mondiale. Il premier Orbán continua a essere il più schietto alleato di Vladimir Putin in Europa e, al netto di concessioni segrete in camera caritatis, l’unico oppositore all’ingresso di Kiev nell’Ue. Ma la regione che va da un lato all’altro dei Carpazi e che abbraccia Romania, Slovacchia e Ungheria è stata divisa dai governi, le persone qui hanno sempre viaggiato come se non esistesse nessun confine. E infatti è una zona di contrabbando. L’autista prima di noi viene fermato e dalla vecchia Opel fa uscire un intero negozio. Il nostro conducente scuote la testa coperta dalla coppola e parla senza sosta, ma prosegue guardingo e non dimentica mai di sorridere a ogni guardia di frontiera. Alla stazione di Chop, dal lato ucraino, famiglie che dai lineamenti e dai vestiti si potrebbero scambiare per rom ungheresi o romeni mostrano i passaporti locali alla polizia della seconda dogana presente alla stazione. L’uomo urla che non possono controllarli di nuovo, ma il poliziotto non si altera e lo invita ad aprire le borse su un banco prima di richiudere la porta dietro di sé. Qui la guerra quasi non è arrivata, se non fosse per le difficoltà alla frontiera, per i militari in servizio e per qualche poster non si direbbe di essere entrati in un Paese che da due anni affronta uno dei nemici più temibili del mondo. Nell’ampia stazione di epoca sovietica, uguale a mille altre dalla Polonia alla Siberia, si nota qualche cornice in bassorilievo vuota, probabilmente una volta vi si scorgeva un’opera che rimandava al potere di Mosca.

Un militare ubriaco insulta chi esce a fumare, insiste finché non si rientra e poi continua a parlare da solo. Quando arriva il treno per Kiev inveisce contro tutti prima che un collega di due metri lo trascini nel gabbiotto di guardia. È incredibile ogni volta constatare che in Ucraina i treni spaccano il secondo. I controlli sono molto fiscali e la capotreno fa alzare chiunque si sieda in un posto diverso da quello assegnatogli. Svolge il suo lavoro con fare deciso e puntiglioso e nell’uniforme di stile sovietico appare un po’ sovietica anche lei, burocratizzata oltre la pedanteria. Lei, i poliziotti di Chop, i dipendenti della stazione, gli addetti alle pulizie e i vari posti di controllo, i negozianti dei chioschi lavorano ancora tutti senza abbandonarsi all’inedia del «tanto c’è la guerra». Al contrario, sembra che proprio perché c’è la guerra (ora che siamo a 10 giorni dal secondo anniversario dell’invasione russa) si debba essere più fiscali.

PER MANDARE avanti una macchina così grande e complessa, al di là di ogni possibile virtù, c’è bisogno principalmente di soldi. Per gli stipendi, per la manutenzione, per l’energia… anche per far lavare le lenzuola che la controllora distribuisce a ogni passeggero dei vagoni letto. «L’Ucraina è finita, non produce più nulla» aveva detto Putin nel suo discorso di fine anno e, almeno per la seconda parte della frase, non si può dire che fosse troppo lontano dalla verità. Dunque l’Ucraina dipende dagli aiuti occidentali, sia per continuare a combattere la guerra, sia per continuare a esistere durante la guerra. La notizia di ieri che il Senato statunitense ha di nuovo raggiunto l’accordo per un finanziamento di 60 miliardi di dollari da inviare a Kiev ha fatto subito esultare il presidente Zelensky: «Sono grato a tutti i senatori degli Stati Uniti. Significa che la vita continuerà nelle nostre città e trionferà sulla guerra». Peccato che neanche questa volta è ancora fatta. Mike Johnson, lo speaker della Camera Usa, ha già annunciato che i repubblicani non voteranno il pacchetto di aiuti. Donald Trump ha poi chiarito che secondo lui gli aiuti devono diventare prestiti e anche Elon Musk si sarebbe espresso contro una nuova tranche di supporto economico. «Queste spese non aiutano l’Ucraina. Prolungare la guerra non aiuta l’Ucraina» avrebbe detto il proprietario di X (ex Twitter).

Ma il punto è che ormai l’Ucraina, dal treno che ci porta a Kiev carico di donne con i figli e di anziani fino ai militari al fronte, non può resistere a lungo senza quei soldi. Dopo due anni di promesse e proclami sull’importanza della libertà, sembra impensabile che la campagna elettorale negli Usa si svolga proprio sulla pelle di queste persone in est Europa. Eppure, il cinismo dei potenti è proprio questo.