Se le prime evidenze dell’uso di bombe a grappolo avevano spaventato la comunità internazionale rievocando vecchi orrori, la notizia che le truppe russe avrebbero usato bombe al fosforo bianco nei bombardamenti di Irpin e Hostomel la notte del 22 marzo non è stata da meno. Secondo il Kyiv Independent, è stato il sindaco di Irpin, Oleksandr Markushin, a denunciare a metà giornata l’uso di tali ordigni proibiti dalla Convenzione di Ginevra. Le agenzie internazionali finora si sono dimostrate piuttosto caute nel rilanciare la notizia ma forse non è casuale che proprio oggi l’amministrazione americana abbia deciso di intraprendere un’accusa formale all’esercito russo per «crimini di guerra».

EPPURE, A ODESSA è stata una giornata relativamente tranquilla. Stamane mentre parlavo al telefono sul belvedere a picco sulla zona nord del porto si è avvicinata una ragazza. Mi fissava e, visto che non le davo corda, ha aspettato che attaccassi. «Americano?» mi ha chiesto, ma quando le ho risposto no, ha iniziato a guardarsi intorno nervosa, non si fidava. «Ma perché vuoi saperlo?» le ho chiesto. «Io abito qui e qui c’è una guerra e non voglio che ci sia qualcuno che complotta contro di noi». Le ho chiesto se fosse della polizia o dell’esercito e mi ha risposto con un gesto rapido, come a dire «ma sei matto?». Poi, come se avesse avuto un’illuminazione, ha estratto freneticamente il portafoglio dalla piccola borsa e mi ha detto «facciamo così». Ha preso la carta d’identità e se l’è appoggiata alla guancia dicendo che si chiamava Tatiana. Per interrompere la conversazione le ho mostrato il passaporto ma lei ha iniziato a sfregare la carta delle pagine e a guardare la foto e la mia faccia. Poi mi ha addirittura chiesto cosa facessi lì e se avessi scattato foto visto che non era permesso.

Avevo notato sui parapetti dei fogli appesi con lo scotch con il divieto di filmare in bianco e nero. A quel punto le ho risposto secco che stavo lavorando e che mi lasciasse in pace. Invece, mi ha ripetuto che non poteva lasciarmi in pace perché ora la vita è così, «io tra poco vado a casa da mio figlio, passiamo la giornata insieme e quando stasera andremo a dormire potrebbe essere l’ultima volta che lo vedo». «Perché?» le chiedo ingenuamente. «Perché qui c’è una guerra e prima di domani potremmo essere tutti morti, anche tu, come mio fratello e i miei amici». Poco dopo se n’è andata. Al suo posto, «chiamati da lei» ho subito pensato, sono arrivati i militari che erano di guardia all’inizio del belvedere. Hanno preteso di controllare la memoria del cellulare, le chat dei vari servizi di messaggistica e la macchina fotografica.

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TUTTO INTORNO c’era qualche famiglia che aveva approfittato della bella giornata per portare i bambini alle giostre del parco, due ragazzini che giocavano a basket e degli anziani. Una normale mattinata di sole primaverile. Se non fosse che a 120 chilometri ci sono i russi che premono per conquistare Mykolaiv, che più in là quasi tutta la costa del Mar Nero è stata occupata e che a Kharkiv e Kiev continuano i bombardamenti. «Ma cosa stai facendo qui?» mi ha chiesto uno dei militari alla fine.

Ero andato a controllare se l’attacco missilistico della sera prima fosse stato effettivamente neutralizzato dalla contraerea ucraina o se ci fossero edifici danneggiati nella zona del porto. «Sai che qui non si può stare? Hai ricevuto le disposizioni per la stampa?». Gli ho risposto di sì e dopo un po’ se ne sono andati anche loro.

NEL TAXI PER TORNARE verso il centro ho conosciuto Andriy, un ragazzo di circa trent’anni. Gli ho chiesto se avesse paura. «Stanco un po’ sì, ma non ho paura, perché ho fiducia in Dio». Andriy è di Mikolayiv, dove «prima bombardavano solo la notte, ormai non c’è più orario». «E tu vai nei rifugi quando bombardano?». Ride e risponde che non ci va perché è pigro. È tornato martedì da un lungo viaggio verso nord-ovest per accompagnare una famiglia che ha scelto di rifugiarsi in un monastero ortodosso. Gli chiedo come mai lui non si è arruolato e mi dà una risposta che non sentivo da molto: «I due presidenti sono d’accordo sul fatto che delle persone muoiano per loro, ma io non voglio essere carne da macello in un gioco per ragazzoni militari». «Scusa, ma ognuno ha il suo lavoro» aggiunge. A questo punto vorrei sapere la sua opinione sulla guerra ma lui vuole assicurarsi che non rivelerò il suo nome o la sua immagine e gli dico che userò un nome di fantasia e che non ci sarà nessuna foto, come infatti stiamo facendo. «Azov ha preso il controllo dell’Ucraina, Zelensky è solo una pedina nelle loro mani e fa tutto ciò che gli ordinano. Le persone si illudono che Azov stia combattendo per l’indipendenza ma è solo propaganda, Azov combatte per mantenere il suo potere. Usa la propaganda e la gente gli va dietro come un branco di pecore». Stupito da un’affermazione del genere in un momento così delicato, mi scopro a fare la parte dell’avvocato difensore, «sì, ma è Putin che ha invaso l’Ucraina». Andriy mi fissa e risponde, definitivo: «Ora è in corso una guerra tra Dio e Satana e noi dobbiamo stare attenti». Poi, come ritornando da un’allucinazione, continua «Putin è una persona cattiva, vuole prendersi parte dell’Ucraina con il sangue. Ha fatto guerre dovunque… a me dispiace per i soldati ucraini e anche per quelli russi che sono morti».

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«Sai perché i russi stanno bombardando le scuole e gli ospedali?» mi domanda, ma non faccio in tempo a rispondere che arriviamo a un posto di blocco e come un lampo mi sfiora l’idea che Andriy potrebbe essere schedato, potrebbero sapere che è filorusso o che, perlomeno, non è un patriota convinto. In tal caso io sarei in macchina con un sovversivo in un momento storico in cui il sospetto può essere mortale. Per fortuna il militare di guardia è un ragazzone cordiale ed educato che controlla il passaporto in fretta e sorride dicendo «arrivederci» in italiano. Andriy dopo il check-point non parla più come prima, provo a riprendere il discorso ma mi dice solo «nel mondo comandano i massoni, sai cosa sono i massoni?» rispondo di sì e lui conclude «in Ucraina e i massoni sono legati ad Azov e ci stanno portando alla distruzione, hanno legami con l’esercito, con la milizia e anche con i politici». Saluto Andriy mentre suona la sirena dell’allarme antiaereo e per qualche motivo sono contento di non essere più in sua compagnia.

POCO DOPO mi sono spostato verso la spiaggia di Luzanivka perché secondo alcune fonti locali in quella zona erano stati colpiti degli edifici da un attacco durante la mattinata. Gli abitanti del quartiere mi hanno risposto a mezza bocca, non si fidavano del tesserino da giornalista e neanche dell’accredito. Alla fine ho notato una specie di accampamento militare nei pressi della spiaggia. Chiedo ai due piantoni se ci siano danni o feriti. «No», risponde il più giovane, «i colpi erano i nostri». E, sempre stando alle sue dichiarazioni, si trattava di un solo missile neutralizzato in aria.