Trump all’anno zero delle promesse di pace
Scenari «Portare allo stesso tavolo Ucraina e Russia» e porre fine al massacro in Medio Oriente - per il quale ha pesanti responsabilità -, non sembrano obiettivi davvero a portata di mano
Scenari «Portare allo stesso tavolo Ucraina e Russia» e porre fine al massacro in Medio Oriente - per il quale ha pesanti responsabilità -, non sembrano obiettivi davvero a portata di mano
Con Trump comincia l’anno zero della politica estera Usa e mondiale. Ma le guerre non finiscono in un giorno neppure a Hollywood, «la parte di intrattenimento del complesso militar-industriale americano», come diceva Frank Zappa. E per altro da qui al suo insediamento alla presidenza il 20 gennaio ci sono oltre due mesi – un’eternità in politica e in guerra – durante i quali su fronti come Ucraina e Medio Oriente può accadere di tutto.
Eppure a Fox News la portavoce della sua campagna Karoline Leavitt, ha dichiarato che l’agenda di Trump per il “Giorno 1” include il “riportare Ucraina e Russia al tavolo dei negoziati per porre fine a questa guerra. Trump ha affermato che il conflitto non sarebbe mai scoppiato se lui, o un altro presidente «rispettato da Putin», fosse stato alla Casa Bianca, e ha sostenuto di poter porre fine alla guerra in 24 ore, sebbene non abbia spiegato come intenda riuscirci né si è mai espresso chiaramente se desideri la vittoria dell’Ucraina.
Queste frasi ci dicono tutto della sua visione primitiva della politica estera che si risolve in un rapporto diretto fra i leader, non importa se democratici o autoritari; l’idea guida di Trump è che un accordo diretto fra “uomini forti” sia sufficiente a risolvere le principali crisi globali. L’altro strumento contemplato da Trump in politica estera è la diplomazia del denaro, che secondo lui tutto compra e tutto appiana.
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I disastri neoliberali incoronano TrumpIl fatto che la politica estera sia fatta dai diplomatici, con viaggi, negoziati, trattative, è un aspetto scontato ma che Trump, da businessman sbrigativo, vive con evidente fastidio. Figuratevi come Trump giudichi Bruxelles e la sua burocrazia, dove tutti e 27 gli stati dell’Unione vogliono dire la loro. È evidente che agiterà la possibile imposizione di nuovi dazi commerciali sulle esportazioni verso gli Usa per intavolare trattative bilaterali con gli europei, con l’obiettivo di dividerli e indebolirli, usando anche l’ eventuale paralisi della Nato come spauracchio.
Trump, per altro non diversamente dai presidenti democratici, ritiene gli europei degli «scrocconi» (parola usata da Obama) perché approfittiamo dell’ombrello militare americano. Qui il suo credo è semplice: dovete mettere mano al portafoglio.
Trump in Ucraina vuole vincere facile? Per lo meno come nota il politologo Ivan Kratsev, membro permanente dell’Istituto per scienze umane di Vienna, l’Occidente dovrebbe capire prima quali sono gli obiettivi di Putin, pronto a trattare ma alle sue condizioni. Ascoltiamo solo per sentire quello che vogliamo sentire, e cioè che Putin è disposto a negoziare la fine del conflitto in Ucraina. Ma è davvero così? Come credono molti analisti e la maggior parte degli europei, la guerra si concluderà con un accordo. Kiev sarà costretta a barattare una parte di territorio in cambio di garanzie sulla sicurezza, come anticipava ieri anche il Wall Street Journal, un media vicino a Trump. Eppure, anche se i negoziati sono inevitabili, forse non siamo così vicini alla conclusione del conflitto.
La ragione è che la Russia e l’Ucraina sono in due situazioni molto diverse. Al momento il Cremlino è convinto di essere in vantaggio sul campo di battaglia. Crede di avere un considerevole spazio di manovra prima di mettere fine alla guerra. Il presidente ucraino Zelensky, al contrario, è in una situazione precaria. Gli insuccessi militari hanno indebolito il sostegno politico al suo paese. Kiev vuole che la guerra finisca il prima possibile, ma non è ancora pronta a cedere del territorio in cambio di pace. Perciò Zelensky è costretto a parlare di vittoria e allo stesso tempo a cercare il compromesso. Questa è un’equazione complicata: davvero Trump la risolve in un giorno come proclama?
Così come mettere fine al massacro in Medio Oriente non è un traguardo a portata di mano. Trump si vanta di non avere iniziato delle guerre ma nel suo primo mandato ha preso decisioni rovinose: ha stracciato l’accordo di Obama sul nucleare iraniano, ha fatto uccidere il generale Qassem Soleimani capo dei Pasdaran, ha spostato l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, ha riconosciuto la sovranità israeliana sulle alture siriane sul Golan, il tutto contro ogni risoluzione dell’Onu, altra istituzione che lui disprezza. Non solo: suo genero Jarred Kushner aveva promesso a Netanyahu che gli Usa avrebbero certificato l’annessione israeliana del 30% della Cisgiordania.
Lo stesso Kushner questa primavera era il fautore di una deportazione dei palestinesi di Gaza nel deserto del Negev «per finire il lavoro», impiantare nella Striscia un business sul modello di Dubai, ed escludere, allo stesso tempo, qualsiasi soluzione per uno Stato palestinese.
Il tutto sullo sfondo del Patto di Abramo che Trump ha avviato durante la sua prima presidenza e che ora vuole concludere con l’ingresso dell’Arabia saudita. Forse non sarà il genero di Trump a definire l’accordo ma il fondo di investimento saudita è socio di Kushner negli investimenti turistici e immobiliari che sta trattando con Rama e Vucic in Albania e Serbia, facilitati dalla mediazione di Richard Grenell, ex ambasciatore a Berlino, ex inviato in Kosovo, ora menzionato come possibile segretario di Stato.
Come scriveva sul manifesto del 7 ottobre il direttore Andrea Fabozzi questi sono i progetti del capitalismo della sorveglianza di Trump ed Elon Musk sul piano internazionale. Ma la “pace” di Trump, in un mondo assai mutato dal 2016 quando vinse la prima volta, appare come un ramo di ulivo cosparso di spine sul destino dei popoli e delle nazioni.
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