Roma è fuori dall’Europa. Sono passati quasi dieci anni dal 31 dicembre 2012, la data entro cui il nostro paese avrebbe dovuto raggiungere il 65% di raccolta differenziata e la Capitale è ancora ferma al 43,75% (dato Ispra, riferito al 2020) e sostanzialmente ferma dal 2016 (quando la percentuale era del 42%). Ogni cittadino della capitale ha prodotto nell’ultimo anno oltre 300 chili di rifiuti indifferenziati, una massa enorme che chi amministra vorrebbe «gestire» costruendo un mega inceneritore.

Così facendo, però, Roma rischia di restare ancora a lungo fuori dall’Europa, che nell’aprile del 2018 ha approvato un pacchetto di misure sull’economia circolare e nel 2020 un secondo piano d’azione per l’economia circolare, stabilendo tra l’altro nuovi obiettivi giuridicamente vincolanti per il riciclaggio dei rifiuti e la riduzione dello smaltimento in discarica, con scadenze prestabilite.
Entro il 2025, almeno il 55% dei rifiuti urbani dovrà essere riciclato. Tale obiettivo salirà al 60% entro il 2030 e al 65% entro il 2035. Entro il 1° gennaio 2025 dovrà essere attivata la raccolta differenziata dei tessili e dei rifiuti pericolosi generati dalle famiglie. È a più ridotta scadenza l’avvio della raccolta separata dei rifiuti organici, da avviare a compostaggio: il 31 dicembre 2023.

In senso più ampio, l’economia circolare è uno degli strumenti del Green Deal europeo, che punta alla neutralità climatica entro il 2050. Per realizzare gli obiettivi descritti, si interviene sulle leggi. Sono già passati quattro anni da quando, il 30 maggio 2018, è stata aggiornata in modo sostanziale la direttiva 2008/98/CE, quella relativa ai rifiuti. L’idea di un’economia circolare influenza la «gerarchia dei rifiuti», che prevede in ordine prevenzione, riutilizzo, riciclaggio, recupero di altro tipo e smaltimento. Sotto la voce recupero di altro tipo, quarto elemento in ordine gerarchico, c’è il recupero di energia, cioè l’incenerimento dei rifiuti. Che è considerata pratica residuale.

La stessa Direttiva ricorda che la gestione dei rifiuti deve essere effettuata senza creare rischi per l’acqua, l’aria, il suolo, la flora o la fauna, senza causare inconvenienti da rumori o odori, o senza danneggiare il paesaggio o i siti di particolare interesse. Definisce, poi, che «gli Stati membri dovrebbero avvalersi di strumenti economici e di altre misure intesi a fornire incentivi per favorire l’applicazione della gerarchia dei rifiuti» e tra questi ci sono anche «tasse sul collocamento in discarica e sull’incenerimento». L’incenerimento per la Commissione europea è una pratica dannosa da tassare: il recupero di energia (bruciare rifiuti in un inceneritore per produrre energia) non può in alcun modo essere considerato una forma di «riciclaggio» dei rifiuti.

Il preambolo della Direttiva rifiuti del 2018 sposa il concetto di economia circolare e delinea un «itinerario» di azioni: «La gestione dovrebbe essere migliorata e trasformata in una gestione sostenibile dei materiali per salvaguardare, tutelare e migliorare la qualità dell’ambiente, proteggere la salute umana, garantire un utilizzo accorto, efficiente e razionale delle risorse naturali, promuovere i principi dell’economia circolare, intensificare l’uso delle energie rinnovabili, incrementare l’efficienza energetica, ridurre la dipendenza dell’Unione dalle risorse importate, fornire nuove opportunità economiche e contribuire alla competitività nel lungo termine».
L’Italia fatica ad assecondare questa lettura. Nel decennio 2010-2020 la produzione di rifiuti s’è ridotta del 10 per cento, ma la quantità di quelli indifferenziati bruciati negli inceneritori è rimasta costante, in termini assoluti, ed è quindi aumentata in termini percentuali. Ad un aumento significativo nelle percentuali della raccolta differenziata, che dal 35,3% del 2010 è passata al 63% nel 2020, non s’è accompagnata una riduzione dei rifiuti inceneriti, passata dal 16,1 al 18,4% del totale. Questi dati evidenziano un aspetto: una volta che si è costruita una infrastruttura pesante come un inceneritore, è difficile evitare di usarlo; i costi d’investimento devono essere ammortizzati.

Ecco perché è inopportuno realizzarne di nuovi, oggi che anche i Paesi del Nord Europa, quelli che stanno sul podio per rifiuti prodotti pro-capite (844 chili a testa in Danimarca, 776 in Norvegia, 556 in Finlandia, contro una media europea di 502 nel 2019) e inceneriti (56% in Finlandia, 53% in Svezia, 49% in Norvegia e 48% in Danimarca, contro una media europea del 27%) stanno prendendo atto di dover cambiare strada. Nello studio «Analisi del quadro normativo nordico e del suo effetto sulla prevenzione dei rifiuti e sul riciclaggio nella regione», realizzato da un gruppo di esperti per il Nordic Council of Ministers (strumento di cooperazione tra i governi dei Paesi già elencati più l’Islanda e le isole Fær Øer), pubblicato nel 2019, si legge in modo inequivocabile: «L’area più chiara di cambiamento richiesto sarà uno spostamento significativo dall’incenerimento».

La costruzione di un inceneritore non può essere giustificata nemmeno come alternativa alla discarica. «L’obiettivo di ridurre al minimo lo smaltimento in discarica (fissato al 10% nel 2035) è auspicabile in quanto cerchiamo di implementare un’economia circolare, ma il mezzo principale per ridurre lo smaltimento in discarica dovrebbe essere la riduzione dei rifiuti residui» spiega un’analisi recente di Zero Waste Europe. Una lettura nei fatti sposata dalla Commissione europea, che considera gli inceneritori attività che arrecano «un danno significativo all’economia circolare», perché «la costruzione di nuovi inceneritori di rifiuti per aumentare la capacità di incenerimento esistente nel Paese comporta un aumento significativo dell’incenerimento di rifiuti che non rientrano nella categoria dei rifiuti pericolosi non riciclabili». È il principio DHSN, «do no significant harm», introdotto nel 2021 con il regolamento che istituisce il dispositivo per la ripresa e la resilienza. Gli inceneritori non sono in linea con l’economia circolare, l’Europa non li finanzia.