Alberto Guariso, come giuristi dell’Asgi avete annunciato ricorsi contro il «reddito di cittadinanza». In che modo questo provvedimento discrimina gli stranieri?
In diversi modi. Il primo è il requisito dei dieci anni di residenza per ottenere la misura. Vale sia per gli italiani che per gli stranieri, ma danneggia più questi ultimi che in media hanno maggiori difficoltà a maturare una residenza così lunga. In passato la Corte costituzionale si è pronunciata sulla legittimità della richiesta di un requisito che preveda un certo radicamento territoriale della persona al fine di ottenere misure di welfare, ma ha stabilito che deve essere ragionevole e proporzionato. Il «reddito di inclusione» (Rei) prevedeva una soluzione equilibrata: due anni di residenza. Quella dei dieci anni non pare corrispondere ai criteri indicati dalla Corte.

Il secondo?
Il permesso di soggiorno a tempo indeterminato. Il 65% degli stranieri lo possiede, ma il restante 35% no ed è composto dai più poveri. Per ottenerlo bisogna avere un reddito pari all’assegno sociale, circa 6mila euro l’anno, e un alloggio idoneo, oltre ai 5 anni di residenza. Richiedere un simile requisito per accedere a una misura di sostegno alla povertà è una contraddizione in termini: se vuoi eliminare la povertà devi partire dai più poveri.

Sono stati esclusi i titolari di protezione internazionale. È regolare?
La cosa è talmente assurda che l’Inps li ha inseriti nel modulo di richiesta. Probabilmente in sede di conversione verranno introdotte delle misure che parifichino la legge al modulo. È incredibile che i diritti dipendano dai moduli. E questo nonostante ci sia una direttiva europea per cui i rifugiati devono avere gli stessi diritti dei cittadini dei paesi ospitanti.

Al Senato è stato introdotto l’obbligo di documentare la composizione del nucleo familiare e la situazione reddituale e patrimoniale nel paese di origine. Cosa comporta?
È una misura analoga a quella presa per la mensa di Lodi che ha provocato tante polemiche. C’è ancora possibilità di eliminarla. Se così non fosse, avrebbe effetti di esclusione degli stranieri più elevati delle altre due decisioni. Moltissimi avrebbero un’estrema difficoltà a recuperare i documenti per i costi elevatissimi che questo comporta. Si creerebbe una situazione di incertezza nella valutazione dei documenti e si romperebbe il principio che regola l’accesso alle prestazioni sociali in base all’Isee. Per ottenere questa certificazione gli italiani e gli stranieri devono dichiarare le loro proprietà. Su quella dichiarazione l’Inps e l’agenzia delle entrate fanno dei controlli, anche accedendo a banche dati di stati esteri. Quando l’Isee è rilasciato tutti devono essere considerati uguali: l’italiano che ha la casa a Londra e il senegalese che viene da Dakar.

Anche sul reddito qualcuno sostiene che limitare l’accesso degli stranieri sarebbe vantaggioso per gli italiani. È vero?
Se ci si divide tra italiani e stranieri e si pensa che la coperta è troppo corta questa logica sembra vera. Ma la divisione è sbagliata a monte. Il rischio è di escludere da una prestazione che doveva mettere fine alla povertà proprio coloro che ne hanno più bisogno. La logica dell’uguaglianza non solo è corretta a livello morale e politico, ma è un beneficio per la collettività e aumenta la sicurezza di tutti. Invece qui si fa crescere la conflittualità contro gli stranieri affinché renda in termini elettorali.

È possibile affidare il rispetto dei diritti ai tribunali?
Noi speriamo non sia necessario infilarsi di nuovo in un contenzioso e confidiamo che si facciano le dovute modifiche. Se così non fosse la strada inevitabile è un’azione in giudizio e la richiesta al giudice di sollevare la questione di costituzionalità.