E’ stata definita la «strage dei bambini» perché tra i 200 migranti che quel giorno persero la vita, era l’11 ottobre del 2013, c’erano anche 60 minori. Una delle tragedie più gravi del Mediterraneo, preceduta solo 8 giorni prima, il 3 ottobre, da un’altra: l’affondamento a soli 300 metri dalle coste dell’isola di Lampedusa di un barcone stracarico di migranti, 368 dei quali persero la vita. Un dramma così grande che quasi offuscò la sorte di quelle 200 vittime che vennero in seguito e, soprattutto, le responsabilità avute dall’Italia in quanto accadde. Sì perché non lontano da quel peschereccio in difficoltà, c’era un pattugliatore della Marina militare italiana, la Its Libra che sarebbe potuta intervenire.

«L’Italia ha fallito», ha stabilito ieri il Comitato per i diritti umani delle Nazioni unite accogliendo il ricorso presentato da quattro sopravvissuti a quel naufragio, tre siriani e un palestinese. «Avrebbe dovuto tutelare il diritto alla vita di oltre 200 migrati che erano a bordo dell’imbarcazione» e invece «non ha risposto prontamente a varie chiamate di soccorso» partite dalla barca. Tra queste anche quelle fatte da un medico siriano di Aleppo, il dottor Mohanad Jammo, che aveva lanciato l’allarme chiamando Roma con un telefono satellitare. Jammo, che in quel naufragio perse due dei suoi tre figli, due bambini di 6 anni e 9 mesi, è uno dei testimoni del processo in corso a Roma che vede tra gli imputati due ufficiali, il comandante della sala operativa della Guardia costiera e quello della sala operativa della squadra navale della Marina militare. Entrambi devono rispondere di rifiuto di atti d’ufficio e omicidio colposo per non aver ordinato l’immediato intervento del pattugliatore in attesa che a operare fossero le autorità di Malta.

Proprio il ruolo svolto dalla Marina è al centro della decisione adottata dai 18 membri indipendenti del Comitato Onu. Il peschereccio era partito il 10 ottobre dalla città libica di Zuwarah con a bordo circa 400 persone, la maggior parte delle quali profughi siriani in fuga dalla guerra. Poche ore dopo la partenza, l’imbarcazione comincia a prendere acqua a causa dei colpi sparati da un’altra nave. In quel momento si trova 113 chilometri a sud di Lampedusa e 218 chilometri a sud di Malta, in zona Sar maltese. Inutili le richieste di aiuto rivolte alle autorità italiane, che rimandano però le chiamate a quelle maltesi. Uno scaricabarile che dura ore, fino a quando il peschereccio non si ribalta e le persone finiscono in mare. Solo a quel punto da Roma arriva l’ordine alla Libra di intervenire in aiuto dei migranti, senza però riuscire a impedire la morte di 200 di loro.

«L’incidente è avvenuto nelle acque internazionali, all’interno della zona di ricerca e soccorso maltese, ma il luogo era effettivamente più vicino all’Italia e a una delle sue navi militari», ha spiegato ieri uno dei membri del Comitato, Helene Tigroudja. «Se le autorità italiane avessero diretto immediatamente la loro nave e le barche della Guardia costiera dopo le chiamate di soccorso, il salvataggio avrebbe raggiunto la nave al più tardi due ore prima che affondasse».

Il fatto che il peschereccio non si trovasse in acque sotto responsabilità italiana non giustifica, per il Comitato Onu, le scelte prese: «Gli Stati interessati sono tenuti, in base al diritto internazionale del mare, a prendere provvedimenti per proteggere la vita di tutti gli individui che si trovano in una situazione di pericolo in mare» spiega infatti Tigroudja, sottolineando come le autorità italiane «avevano il dovere di appoggiare la missione di ricerca e soccorso per salvare le vite dei migranti». La decisione di ritardare i soccorsi, è la conclusione raggiunta dal Comitato delle Nazioni unite, «ha avuto un impatto diretto sulla perdita di centinaia di vite».