Tutti e tre pluripremiati e di lingua inglese. Tutti e tre autori che escono in libreria in questi giorni di memoria. Storie che hanno in comune la prima persona eppure non cedono alla tentazione dell’autoreferenzialità, libri aperti al mondo, ai sentimenti diversi e contraddittori, alla tenerezza, alla speranza e al riscatto. Anche quando la storia si fa incubo. D’altro canto, la stagione della lettura per i più piccoli sembra godere di buona salute: sono lettori 5,8 milioni di bambini e bambine entro i dieci anni e il dato positivo prosegue fino ai 14, dove leggono il 77% del totale dei ragazzi/e. È a loro che l’editoria si rivolge, anche con spregiudicatezza, nel raccontare di memoria e Shoah. Alcuni libri sfuggono a questa «disinvoltura» e alla narrazione stereotipata.

LE ILLUSTRAZIONI MAGICHE e quasi miniate di Peter Sís (Nicky&Vera, Rizzoli, pp. 64, euro 18) compongono mappe di immagini e geografie di luoghi e sentimenti e sono accompagnate da un testo essenziale che racconta la vicenda di Nicholas Winton, banchiere poliglotta, abile nella scherma tanto da entrare nella nazionale inglese. Ma erano tempi che chiamavano ad altri impegni e così Winton, nel 1938, si reca in Cecoslovacchia: «Un giorno che era a Praga, la mamma di Vera venne a sapere di un inglese che aiutava i bambini cecoslovacchi a fuggire dal paese per salvarsi dai tedeschi». Quell’inglese era Nicky. Per Vera è l’inizio di un viaggio che la porterà in salvo in Inghilterra insieme ad altri 668 bambini.

SEMBREREBBE una storia banale ma è quella della banalità del bene: Nicky, ormai anziano, «non aveva raccontato a nessuno dei bambini». È sua moglie Grete a trovarne le storie mentre riordina vecchie carte: «Non sono stato un eroe – dichiarò allora Nicky – Non ho corso pericoli, a differenza dei veri eroi. Ho solo visto quello che andava fatto». «Ero sempre a caccia di avventurieri famosi – scrive Sís riferendosi ai suoi lavori precedenti – ma non avevo mai prestato attenzione a quelli silenziosi e riluttanti».
Non ci sono eroi invece in Dopo la notte di Uri Shulevitz (Einaudi Ragazzi, pp. 256, euro 15,90) – che con Sís ha in comune l’identità di errante in paesi diversi – ci sono disegni in tratti neri forti o delicati, precisi o marcati per un libro che racconta la fuga di una famiglia di ebrei all’avanzare dell’esercito tedesco. La storia di un bambino che attraversa paesi lontani e il cui unico rifugio era il disegno in un contesto in cui «tutto sembrava irreale».

SHULEVITZ, autobiografico nei disegni e nei sentimenti, lascia Varsavia e inizia con i suoi genitori un viaggio incredibile verso est attraversando l’Unione Sovietica. Un viaggio che pone domande impegnative per tutti e non solo per un bambino: «Perché l’intervento divino avrebbe dovuto salvare la vita ai miei genitori, che non erano religiosi? Perché allora il mio devoto nonno, che era un uomo profondamente credente e osservava ogni singolo comandamento della sua fede con amore e rispetto ha dovuto patire una morte orribile per mano dei nazisti?».
Quando passano il primo confine, un soldato tedesco gli regala una caramella e il viaggio degli Shulevitz prosegue verso est con treni presi fortunosamente, senza biglietto né documenti: Byalistok, Yura, nell’estremo nord vicino al mar Bianco: «Le guardie non erano necessarie. Al loro posto c’erano le sterminate foreste russe». E di nuovo verso sud: «quando raggiungemmo la città di Turkestan non c’è da stupirsi se i miei genitori (…) decisero di fermarsi». Turkestan, una piccola città della Repubblica Kazaka. Poi, la fame, la fortuna, i giochi. E il viaggio di ritorno, altrettanto avventuroso, attraverso Mosca, Kiev, Bratislava. Un percorso che si conclude a Parigi: «I miei luoghi preferiti dove passare il tempo erano le bancarelle dei bouquinistes, i librai, lungo la Senna». Poi – ma questo il libro non lo racconta – Shulevitz si trasferisce in Israele e infine a New York.
Le cose che ci fanno più paura di Keren David (Giuntina, pp. 256, euro 15) ha invece per protagoniste due gemelle adolescenti: diverse per carattere, aspetto e inclinazioni. La Londra in cui vivono è quella dei nostri giorni e quello con cui si devono confrontare è l’antisemitismo di oggi e un’identità ebraica prima nascosta e solo poi scoperta per la prima volta. Un modo diverso di fare i conti con la memoria della Shoah che pure traccia i confini del racconto e la cui ombra, proprio come accade nella realtà, sbatte rovinosamente sul presente.

 

SCHEDE

Aquiloni, diari e cassetti segreti

Noah è un bambino ebreo chiuso nel suo mondo che vuole solo far volare il suo aquilone nel cielo di Cracovia, mentre il fratello Joel lo protegge facendo le veci del padre orologiaio. Sono i Baumann, costretti a dividere casa con gli Hiller. Fuori, i tedeschi hanno trasformato la città in un ghetto. Sono loro ad attraversare con le loro vite difficili il libro L’aquilone di Noah dello scrittore di Madrid Rafael Salmerón (pubblicato da Uovonero). E poi, c’è anche Bruna Cases bambina milanese che a nove anni teneva diligentemente un quadernetto-diario dove narrava la sua storia famigliare e quella del fascismo e delle leggi razziali: ora è tutto nel volume Sulle ali della speranza di Bruna Cases Federica Seneghini (Piemme). E sempre Piemme porta sugli scaffali Dal pianto al sorriso di Lia Levi, breve romanzo ambientato durante l’occupazione nazista. ritrovato 70 anni dopo, in un cassetto. Lei aveva 12 anni.

 

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Dalla Risiera di san Sabba a Drancy

«Dopo appena due anni, una parte del campo fu trasformata in museo, e il Comitato internazionale bandì un concorso per la creazione di un memoriale, inaugurato solo nel 1967»: sono le prime righe di La memoria dei campi – La Risiera di San Sabba, Fossoli, Natzweiler -Struthof, Drancy di Chiara Becattini (Giuntina). I campi di internamento e di transito infatti (sia nei casi italiani che in quello di Drancy, nella periferia parigina, o Natzweiler -Struthof in Alsazia) hanno una storia successiva, che rivela il modo in cui ci si è confrontati con l’eredità del genocidio. Un volume che narra come si costruisce la memoria dei luoghi «dopo», del ruolo dei singoli, delle associazioni e delle istituzioni. Spazi del trauma che sono diventati – non senza fatiche – luoghi del lutto condiviso: il libro ne racconta la storia e un possibile futuro. (l. ta.)

 

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Thomas e i suoi disegni di Auschwitz

Thomas Geve è poco più di un bambino quando viene deportato ad Auschwitz e spearato dalla madre. Alla liberazione, nell’aprile del 1945, raccolse le forze residue e fissò su carta quel che ha vissuto. Lo fece trasformando il retro dei formulari delle Ss in disegni seguiti, poco dopo, da una memoria scritta, un resoconto dell’esperienza della deportazione. A distanza di oltre 75 anni, quel racconto per immagini si fonde per la prima volta all’originario racconto in parole nel libro edito da Einaudi, Il ragazzo che disegnò Auschwitz. Thomas Geve, ora 92enne, si servì di una manciata di matite colorate, tracciando allora più di ottanta tavole sorprendentemente esatte, in cui restituì l’atroce quotidianità così come si svolgeva nel campo divenuto il simbolo dell’orrore e del periodo più buio della Storia europea.