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Stédile: «Una guerra contro il Venezuela non conviene a nessuno»

Stédile: «Una guerra contro il Venezuela non conviene a nessuno»Caracas, 23 febbraio 2019. Manifestazione a sostegno della rivoluzione bolivariana – Afp

Intervista Parla João Pedro Stédile, leader "sem terra" e mente dell’Assemblea dei popoli di Caracas

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 28 febbraio 2019

È quasi una nuova guerra civile spagnola, è stato detto, con la speranza che stavolta possa finire diversamente. Di certo qui, sulla trincea venezuelana, si combatte una battaglia decisiva in difesa dell’autodeterminazione dei popoli contro l’impero. E, quale che sia l’esito, l’intero quadro geopolitico mondiale potrebbe risentirne a lungo.

Non sorprende allora che proprio a Caracas, in solidarietà con la rivoluzione bolivariana e contro l’imperialismo, si sia svolta la prima Assemblea internazionale dei popoli, con la presenza di oltre 400 delegati di 85 paesi: il sogno internazionalista di Marx diventato oggi più che mai una necessità storica, di fronte all’offensiva senza frontiere del grande capitale.

A lanciare l’idea e a proporla al presidente Maduro, che l’ha subito accolta, è stato il leader del Movimento dei senza terra del Brasile João Pedro Stédile ed è a lui che abbiamo chiesto un’opinione sulle sfide e sulle contraddizioni della rivoluzione bolivariana.

 

João Pedro Stédile con la delegazione brasiliana a Caracas

 

Riuscirà il Venezuela a vincere questa battaglia?

La prima sfida è quella di scongiurare il rischio di un intervento militare. In questo senso, la vittoria di lunedì a Bogotà, dove il gruppo di Lima ha escluso nella sua dichiarazione l’uso della forza, ha assunto un’importanza fondamentale. L’embargo economico, anche qualora venisse inasprito, non sarebbe infatti sufficiente a sconfiggere il governo bolivariano. Non a caso Cuba ha resistito per 60 anni sotto embargo. E, in più, il Venezuela può contare sul petrolio, vendendolo a paesi diversi dagli Stati uniti: l’accordo raggiunto con l’India, per esempio, permette di scambiarlo con alimenti e medicine, di cui il paese asiatico è un grande produttore.

La soluzione alla crisi economica potrebbe venire anzi proprio dalla creazione di un blocco economico con paesi come Russia, Cina, Iran, Turchia, India, Sudafrica, con cui il Venezuela potrebbe stringere accordi commerciali senza dipendere dal dollaro. Inoltre, a Trump resta appena un anno e mezzo di governo: se non venisse rieletto, come è probabile, si potrebbe aprire un periodo di distensione, anche perché neppure per gli Usa, a lungo termine, risulta conveniente una guerra con il Venezuela. Infine, tutti gli analisti prevedono che il prezzo del petrolio, nei prossimi due anni, tornerà a superare i 100 dollari al barile. E questo potrebbe dare al governo nuovi margini di manovra.

Per quale motivo anche il Brasile si è opposto all’uso della forza contro il Venezuela?

Nell’attuale governo brasiliano esistono tre blocchi in conflitto tra loro: i militari, i Chicago Boys con la loro visione ultraneoliberista dell’economia, e i neopentecostali, di cui fa parte anche Bolsonaro, che rappresentano il gruppo più connotato in senso neofascista. Sono questi ultimi a volere la guerra, nel nome dell’anticomunismo e dell’amicizia della famiglia presidenziale con Trump, Bannon e il Mossad, il quale è interessato a combattere il Venezuela in quanto alleato dell’Iran e della Turchia. Ai Chicago Boys non interessa la guerra, vogliono solo liberalizzare l’economia. Mentre i militari, che hanno una visione più strategica, sanno che si tratterebbe di un’avventura pericolosa. Un po’ perché i soldati hanno bisogno di una causa per combattere e l’invasione del Venezuela non offre loro una ragione valida e un po’ perché non sarebbe una guerra facile, non sarebbe come ad Haiti, dove i militari brasiliani se ne sono stati belli tranquilli con i loro caschi blu. Il rischio insomma sarebbe quello di un nuovo caso Malvinas, quello che ha dato il colpo di grazia al regime militare argentino. È per questo che a Bogotà, a dire no all’intervento, è andato il generale Mourão, non il ministro degli Esteri Araújo, che appartiene all’area pentecostale.

Perché una rivoluzione che ha abbracciato il socialismo non è riuscita a superare il modello economico capitalista ed estrattivista?

Assumendo il controllo dell’industria petrolifera, prima di allora nelle mani dell’oligarchia e delle imprese statunitensi, Chávez si era proposto di utilizzare la rendita petrolifera per rispondere ai problemi fondamentali della popolazione – casa, educazione, salute, infrastrutture di base – e per avviare un piano di reindustrializzazione del Venezuela. In questi 20 anni, però, il governo non è riuscito a cambiare la struttura economica del paese superando la dipendenza dal petrolio. Le ragioni sono molteplici. Nel corso del XX secolo, la facile rendita petrolifera aveva spinto i contadini a emigrare in città, distruggendo l’agricoltura venezuelana. E così il paese, che era stato un grande esportatore di caffè, di cacao, di mais, è diventato completamente dipendente dall’importazione di alimenti. Ora se ne pagano le conseguenze. Per quanto la marcia contadina, con tutte le sue rivendicazioni, abbia giocato un ruolo importante, la presenza contadina in Venezuela resta numericamente limitata.
E un altro grande problema è l’inflazione incontrollata a cui ha condotto la manipolazione del tasso di cambio del bolivar rispetto al dollaro operata dagli Usa attraverso una piattaforma che opera a Miami e che è stata assunta come riferimento dalla borghesia venezuelana. In risposta, il governo ha giocato la carta del petro, la criptomoneta garantita dalle riserve petrolifere del paese, ma senza ottenere gli effetti sperati.
In realtà l’attuale crisi potrebbe anche trasformarsi in un’opportunità per la riconversione economica del paese, ma si tratta di un processo che richiede molto tempo.

Qual è invece il maggiore punto di forza della rivoluzione?

La forte partecipazione popolare, promossa da Chávez in maniera instancabile. La gente partecipa a tutto permanentemente. E questo perché, in base alla pratica pedagogica adottata, il governo informa, spiega, convoca, mobilita. È da 20 anni che il popolo chavista scende in strada. Lo farà nuovamente oggi, per la terza volta in una settimana. Come lo ha fatto alla frontiera, quando un fiume di gente ha supportato i soldati nel bloccare il cavallo di Troia degli aiuti. È significativo che tutti gli atti di violenza siano avvenuti su lato colombiano e su quello brasiliano, non in Venezuela. Sono convinto che sia la partecipazione popolare a salvare questa rivoluzione. E in ciò credo che abbia giocato un ruolo importante anche l’amicizia di Chávez con Fidel, il quale raccomandava sempre di parlare con il popolo e di mobilitarlo. Il popolo è la più grande forza di cambiamento sociale.

La solidarietà nei confronti della rivoluzione bolivariana è stata al centro di questa prima Assemblea dei popoli. Come proseguirà questo processo?

Abbiamo costruito una piattaforma programmatica anti-capitalista e anti-imperialista attorno a cui unire tutte le forme organizzative del popolo. Il prossimo passo sarà quello di promuovere spazi unitari a livello prima nazionale e poi regionale, creando unità attraverso azioni concrete e, soprattutto, tornando a lavorare con il popolo. La sinistra deve tagliarsi la lingua e aprire le orecchie. E promuovere mezzi di comunicazione alternativi. In tal modo si potrà organizzare il prossimo anno una seconda e più grande assemblea internazionale.

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