Europa

Il Parlamento europeo: González «presidente legittimo» del Venezuela

Gonzalez Urrutia il giorno del voto, foto ApGonzalez Urrutia il giorno del voto – Ap

America latina 309 voti a favore, 2011 astenuti e 12 contrari. Enrique Márquez resta a combattere nel Paese e chiede la revoca della vittoria di Maduro

Pubblicato 6 giorni faEdizione del 21 settembre 2024

È arrivato anche dal Parlamento europeo il riconoscimento del candidato dell’estrema destra Edmundo González Urrutia come “presidente legittimo” del Venezuela, dopo quello espresso degli Stati uniti e da qualche governo latinoamericano. In una risoluzione non vincolante adottata giovedì con 309 voti a favore, 201 contrari e 12 astenuti, gli eurodeputati condannano fermamente «i brogli orchestrati dal Consiglio nazionale elettorale, che è controllato dal regime e che si è rifiutato di rendere pubblici i risultati», esortando l’Unione europea ad adoperarsi per garantire che il candidato democraticamente eletto possa entrare in carica il 10 gennaio 2025, anche attraverso sanzioni mirate contro Nicolás Maduro e la sua cerchia ristretta.
Del resto, dopo aver sostenuto tanto a lungo la farsa dell’autoproclamazione di Juan Guaidó, l’Europarlamento si sarà sentito completamente a suo agio nel riconoscere la vittoria di González, tanto più in assenza di una qualsiasi prova a supporto dei risultati elettorali fornita dal governo Maduro a distanza di quasi due mesi dalle presidenziali.

L’IMMAGINE dell’ex candidato della Piattaforma unitaria ha sofferto però un duro colpo dalla vicenda del suo esilio in Spagna: non solo perché si è trattato di una fuga – per quanto motivata dalla paura di un peraltro improbabile arresto – ma anche per la modalità in cui è avvenuta. Per ottenere il salvacondotto dal governo, González ha dovuto infatti firmare quella che è sotto ogni punto di vista una resa: «Sono stato sempre disposto, e continuerò a esserlo, a riconoscere e rispettare le decisioni adottate dagli organi di giustizia nel quadro della Costituzione, inclusa la sentenza della Sala elettorale del Tribunale supremo di giustizia, che rispetto, pur non condividendola, trattandosi di una risoluzione del massimo tribunale della Repubblica».
Un documento, quello su cui González ha posto la sua firma, che avrebbe dovuto restare riservato, ma che mercoledì il presidente dell’Assemblea Nazionale Jorge Rodríguez ha deciso di divulgare, insieme ad alcune foto relative al momento della capitolazione, di fronte alla violazione da parte dell’ex candidato dell’accordo – che escludeva un suo attivismo politico in Spagna – concluso dopo diversi contatti telefonici e due «cordiali» incontri in presenza.

DALLA SPAGNA González ha provato a giustificarsi: «O firmavo o ne avrei pagato le conseguenze: sono state ore molto tese, cariche di pressioni e ricatti», ha spiegato in un video trasmesso sui social, sottolineando come, «in quei momenti», avesse ritenuto di poter «essere più utile in libertà che rinchiuso e incapace di adempiere ai compiti affidati dal popolo sovrano».
Ma se è indubbio che l’ex candidato si sia sentito sotto pressione, di certo non ne esce come un eroe: «Mi ha chiesto clemenza», ha infierito Maduro, definendolo un «pusillanime». «Nessuno può invocare la propria codardia per giustificare un tradimento».

Chi invece, oltre alla golpista María Corina Machado, è rimasto a combattere in Venezuela è Enrique Márquez, il candidato moderato sostenuto dal Partito Comunista, il quale ha annunciato l’inizio di una raccolta di firme a sostegno del ricorso che presenterà alla Sala costituzionale del Tribunale supremo di giustizia per sollecitare l’annullamento della sentenza con cui la Sala elettorale del medesimo tribunale ha riconosciuto la vittoria di Maduro. Una battaglia che Márquez ha scelto di condurre all’interno dei canali strettamente istituzionali – dunque un po’ una lotta contro i mulini a vento – allo scopo di mantenere comunque sotto pressione il governo, evidenziando l’erosione della democrazia venezuelana e l’urgenza di un’azione collettiva a difesa della Costituzione.

E COSÌ PRENDENDO chiaramente le distanze da iniziative come la campagna YaCasiVenezuela del fondatore dell’esercito privato Blackwater, lo statunitense Erik Prince, che ha raccolto quasi 900 mila dollari – l’obiettivo è fissato a 10 milioni – allo scopo di «ripristinare la democrazia» nel paese, iniziando con il finanziamento di «operazioni di intelligence dirette a scoprire come il regime di Maduro ha rubato le elezioni e dove nasconde i soldi», ma senza scartare «nessuna ipotesi».

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