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Stati Uniti, sui giornali l’ombra di Trump

La sede del Whashington Post - AP-Pablo Martinez MonsivaisLa sede del Whashington Post – AP / Pablo Martinez Monsivais

Elettorale americana Washington Post e Los Angeles Times rinunciano all’endorsement elettorale: per i quotidiani americani era una onorata tradizione

Pubblicato 2 giorni faEdizione del 27 ottobre 2024
Luca CeladaLOS ANGELES

Per i quotidiani americani è una onorata tradizione. “L’endorsement,” il sostegno motivato a uno dei candidati (presidenziali e non solo) pubblicato prima delle elezioni è mansione canonica degli editorial board che gestiscono le pagine degli editoriali in autonomia dalle redazioni di cronaca (non esistono invece, ad esempio, i corsivi di prima pagina).

Per questo a Los Angeles la decisione dell’editore del Times di soprassedere, proprio alla vigilia di una delle elezioni più divisive di sempre, ha provocato un piccolo terremoto. All’interno del giornale vi sono state dimissioni a catena, comprese quelle del premio Pulitzer Robert Greene e la direttrice degli editoriali, Mariel Garza, che lasciando ha dichiarato: “Desidero rendere ben chiaro che non trovo accettabile rimanere in silenzio.”

Nel 2016 e 2020 il quotidiano di Los Angeles aveva dopotutto sostenuto Hillary Clinton e Joe Biden, e questa settimana la redazione aveva già pronto il testo di un endorsement di Kamala Harris (come già pubblicato ad esempio dal New York Times e molti altri giornali). Il proprietario del giornale, Patrick Soon-Shiong, è però intervenuto personalmente per bloccarne la pubblicazione. In alternativa, Soon-Shiong, il miliardario che ha acquistato la testata nel 2018, ha proposto una pagina speciale che esaminasse “oggettivamente” i pro ed i contro dei due candidati onde “evitare divisioni” e lasciare che i lettori “si facessero un’idea propria”. Cosa che questi ultimi in effetti non hanno in tardato a fare – sotto forma di una pioggia di indignati commenti e abbonamenti cancellati.

Non si erano ancora sopite le proteste a Los Angeles, che una analoga decisione annunciata, 24 ore dopo, dal Washington Post ha scatenato un putiferio ancora maggiore. La “astensione” dell’illustre testata, seconda per prestigio solo al New York Times, e per molti versi il foglio “ufficiale” della politica della capitale, ha profondamente scosso il mondo giornalistico americano.

L’ultima volta che il Post aveva rinunciato ad un endorsement presidenziale era stato nel 1988. Allora l’elezione aveva contrapposto, in Bush Sr. e Bill Clinton, sostanzialmente due moderati. A parere di molti, rimanere “neutrali” nei confronti di un personaggio come Donald Trump è ben altra cosa. Anche al Post un editoriale a favore di Kamala Harris era apparentemente già stato impaginato prima dello stop in extremis decretato dall’editore –un altro multimiliardario, in questo caso proprietario di Amazon, Jeff Bezos.

Molti hanno considerato tantopiù imbarazzante l’insolito intervento della proprietà, perché è avvenuto al giornale che con lo scoop e la copertura dello scandalo Watergate ha scritto la storia che più incarna risolutezza ed indipendenza del giornalismo americano. In rete è stato quindi un inevitabile tripudio di meme attorno ad inquadrature tratte da Tutti gli uomini del presidente, il film sulle gesta di Woodward e Bernstein, i reporter che per il Post avevano scoperto e denunciato lo scandalo.

Paragonata a quella tempra, la decisione presa “nel rispetto dell’abilità dei nostri lettori di decidere in autonomia,” come ha scritto il direttore Will Lewis, è suonata meno che sincera, nonché in apparente contraddizione col ruolo che il giornale proclama fieramente per se sotto la testata di ogni edizione: “La democrazia perisce nelle tenebre.” Per i lettori che hanno intasato i centralini per disdire abbonamenti la presunta “equanimità’” è sembrata un abbandono ignavo di quella promessa di sostegno della democrazia nel momento del massimo pericolo. Nel giornalismo anglosassone, infatti, gli articoli editoriali sono parte integrante della missione “civica” del quarto stato. Le decisioni di “non esprimersi” stridono infine con la cronaca diligente che entrambi i giornali continuano a fare del trumpismo e delle trasgressioni ed intemperanze della sua figura leader.

I due casi sono l’ultimo indice del precario stato di una società coi nervi a fior di pelle, spaccata nettamente in due, su cui incombe la prospettiva di un ritorno al potere di un personaggio che proprio questa settimana è stato definito “fascista” da suoi stretti collaboratori come l’ex capo di stato maggiore. Un contesto in cui l’ostentata equidistanza “per omissione” è parsa più che mai una falsa equivalenza.

Sulle decisioni si è infine inevitabilmente allungato il sospetto di una timidezza nata da interessi specifici. Entrambi i facoltosi proprietari hanno comprovati o potenziali conflitti di interesse. Soon-Shiong è un medico biotecnologo che deve la propria fortuna a farmaci di suo brevetto. Sudafricano (e amico di Elon Musk) ha in passato puntato ad essere un consulente medico del governo Trump. Oltre che di Amazon (attualmente oggetto di un processo federale antitrust), Bezos è padrone di anche di Blue Origin, l’azienda che compete per appalti governativi per missioni spaziali. Entrambi avrebbero dunque motivo di non indisporre un potenziale prossimo presidente.

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