Nel già complicato ciclo elettorale americano sono ormai entrate appieno le guerre europee e mediorientali, soprattutto con la riattivazione del fiume di dollari stanziati per sostenere Ucraina ed Israele.

Semplificando leggermente, la prima pratica vede la destra spaccata, con un GOP la cui maggioranza, di misura, ha votato in contro gli aiuti, un effetto della svolta neo-isolazionista impressa al partito da Trump. Su Israele è invece vero il contrario: i repubblicani sono compatti nel sostegno a Netanyahu, mentre la sinistra è divisa. E gli ultimi sondaggi indicano che il 55% degli americani ha forti dubbi sulla campagna di Gaza e l’infinita strage di civili (mentre solo il 36% si dichiara favorevole). Malgrado questo (e i moniti di Biden alla “moderazione”) il sostegno americano al governo Netanyahu continua.

In questa dissonanza cognitiva si sono inserite le dilaganti proteste universitarie, le cui rivendicazioni immediate sono il disinvestimento degli atenei dalle aziende del complesso militare industriale.

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Dopo 200 giorni di strage finanziata e negata, la guerra più crudele si sta quindi esplicitando sul fronte interno con una forza prorompente, proporzionale alla sua rimozione. Non poteva essere diversamente, nel paese sponsor e alleato di Israele, a cui è inestricabilmente legato per il peso politico e culturale della più grande diaspora ebraica.

Il 7 ottobre, e la successiva mattanza di Gaza, non potevano dunque non ripercuotersi profondamente qui, ma è soprattutto l’asimmetria del confronto ad aver esacerbato lo scontro politico. Al netto dell’angoscia e del trauma ebraico, amplificati dalla storia e dalla colpevole coscienza occidentale, le accuse di antisemitismo con le quali si è voluto azzerare la protesta hanno reso, se possibile, più tossico ancora il confronto, avvelenandolo con una falsa equivalenza usata strategicamente per silenziare il dissenso.

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La conflazione di antisemitismo e antisionismo e le denunce di “estremismo radicale” vogliono rinsaldare il tabù anti-israeliano. È una mistificazione (sbugiardata, tra l’altro, dalla forte partecipazione di ebrei nel movimento pacifista) alla quale partecipano larghi settori della politica e delle istituzioni, senza dimenticare molta stampa. Per combattere “l’ondata antisemita” è stata istituita anche un’apposita commissione parlamentare che a oggi ha stroncato le carriere di amministratori universitari (Penn e Harvard) ritenuti non sufficientemente severi.

In questo clima asfittico gli studenti veicolano la loro obiezione morale all’insostenibile eccidio costato 350mila vite di civili e bambini, mettendo i propri corpi e le proprie voci in prima fila per dire basta. Ignorati e poi liquidati come radicali ed estremisti (se non filo-terroristi), la loro obiezione è una presenza scomoda per le prospettive politiche del partito democratico e quelle di Biden. La protesta sta di fatto esponendo le fratture all’interno dei democratici (non certo dei GOP compatti nel sostegno a Netanynahu) e incrinando storiche alleanze fra progressisti ebrei e altre componenti della sinistra.

Proprio da sinistra non mancano le critiche sull’opportunità strategica delle manifestazioni che rischierebbero di favorire l’elezione di un Trump alleato, certamente più ferreo ancora, di Netanyahu e delle sue soluzioni finali.

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È difficile però sopravvalutare l’importanza degli studenti come necessaria opposizione alla logica totalizzante della guerra posta come unica alternativa.

In questo senso l’attuale movimento generazionale si salda col ruolo storico del dissenso studentesco nell’opposizione alla guerra in Vietnam negli anni ’60 o negli anni ’80 al disinvestimento dal Sudafrica dell’Apartheid.

Tutto questo è stato evidente negli ultimi giorni nei campus americani in cui siamo passati, soprattutto quello della UCLA di Los Angeles, che domenica ha visto l’ulteriore espandersi della “tendopoli di solidarietà” e, contemporaneamente, la convocazione di una contromanifestazione che ha messo faccia a faccia un migliaio di filo-israeliani e altrettanti pro-palestinesi. I contromanifestanti hanno eretto un palco e un muro di alto parlanti appena fuori dal recinto della tendopoli pacifista e, dopo un comizio in cui gli oratori hanno denunciato gli studenti come “i nostri nemici che sconfiggeremo” ,hanno tentato di penetrare il perimetro tenuto dal servizio d’ordine dando luogo a una serie di incidenti e brevi colluttazioni.

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Un clima teso durato diverse ore in cui il campus, attraversato da una “linea demilitarizzata” fra i due schieramenti, è davvero sembrato una propaggine dei combattimenti nei territori, grazie anche alla massiccia presenza di due gruppi: la United Jewish Coalition e l’Israeli American Council, la cui missione è “il sostegno dello sforzo bellico di Israele”. Fra le tante, indicativa la provocazione scagliata da un manifestante a un membro di Black Lives Matter: “Siamo israeliani stronzo, mica americani! Non siete abituati, vi tagliamo la gola!”.

Nella notte precedente, militanti degli stessi gruppi avevano fatto le ronde attorno all’accampamento sparando musica tecno ad alto volume per impedire agli studenti di dormire.

Malgrado questo la situazione non è, per ora, degenerata e, a differenza di altri atenei, l’amministrazione non ha chiesto alla polizia di intervenire e sgomberare. A oggi sono oltre 70 le università occupate o interessate da proteste.