Quando nel 1964 Stanisław Lem dette alle stampe Summa technologiae era un affermato scrittore di fantascienza, avendo alle spalle già Eden, le Memorie di un viaggiatore spaziale e soprattutto l’enorme successo di Solaris. La sua scelta fu apparentemente incomprensibile: Lem abbandonava il redditizio sentiero della fiction per inoltrarsi nell’ignoto.

Tale doveva apparire ai lettori un ambito in cui venivano istituiti paralleli tra l’evoluzione biologica e quella tecnologica, si parlava di omeostasi e di intelletronica, di metateoria dei prodigi e di metafisica sperimentale, di fantomologia e coltura delle informazioni, per concludere con un corrosivo pamphlet sugli errori della evoluzione naturale.

In realtà, questa Summa technologiae, che compare per la prima volta in italiano grazie alla LUISS University Press nella impeccabile traduzione e cura di Luigi Marinelli (pp. 430, € 35,00), era considerata da Lem come un’opera letteraria al pari delle altre, priva però di una conclusione, buona o cattiva che fosse, perché queste caratterizzano soltanto i romanzi. In fondo, anche Wisława Szymborska prediligeva la lettura di testi di divulgazione scientifica proprio perché «non finiscono né bene né male».

Lem era consapevole del fatto che la letteratura (nemmeno la science fiction) non funziona secondo i metodi delle scienze dure. L’ideale a cui tende lo scienziato è isolare ciò che osserva dalle proprie sensazioni ed emozioni; una simile aspirazione è ovviamente estranea all’artista. La fiction, dove nessuno si sognerebbe di esigere la prova dei fatti, esime il narratore da ogni promessa di attendibilità; proprio perciò Lem pensò di mettere tra parentesi quell’alibi artistico che rendeva superflua la verifica degli enunciati, scrivendo un testo «non bellettristico ma nemmeno interamente futurologico».

Alla narrativa Lem si era ispirato per il rinvio dello scioglimento, non della trama, ma della esposizione delle finalità delle ipotesi scientifiche. Si tratta di un procedimento che ricalca quello della ricerca per «tentativi ed errori» che sta alla base della scienza sperimentale moderna e il libro è dunque a cavallo tra un saggio di filosofia della scienza e un trattato di filosofia della tecnologia. In Polonia venne accolto da un silenzio pressoché totale, rotto unicamente dalla voce solitaria del filosofo marxista «revisionista» Leszek Kołakowski che accusò Lem di farsi ideologo della «tecnocrazia scientista».

In realtà, lo sconcerto che accolse il libro era dovuto all’impensabile anticipo con cui Lem tratteggiava lo sviluppo a venire della civiltà umana, evitando però quel tono profetico che tanto compiace non solo i lettori di science fiction ma anche – più in generale – un pubblico dalle attese messianiche come quello polacco. Nel 1964 nessuno poteva lontanamente immaginare quelle che a Lem sembravano prospettive a breve termine, dall’ingegneria genetica alla bionica (il testo uscì ben tre anni in anticipo rispetto al primo trapianto di cuore), dalla realtà virtuale all’intelligenza artificiale; ma questo fu tutt’altro che un vantaggio. Chi prevede qualcosa con un anticipo di pochi anni – si sarebbe detto poi Lem – può ambire alla fama di profeta, ma chi lo fa con un anticipo di trenta rischia l’oblio, o peggio lo scherno: «A me è capitato il secondo caso», annotava mesto nel 1994.

Ma a ostacolare una ricezione più larga del testo fu, più credibilmente, la sua enunciazione di fede in un umanesimo intransigente, totalizzante: Lem parte dal presupposto, assolutamente pacifico, secondo il quale alla base della evoluzione biologica vi sia la natura, mentre alla base della sviluppo tecnologico c’è l’uomo. Il sapere di cui dispone l’evoluzione è quello empirico, contenuto nel codice genetico: le sue modalità di conoscenza sono pertanto provvisorie. È però soltanto il sapere teorico a permettere grandi balzi in avanti come il passaggio dalle macchine termiche ai reattori nucleari, inconcepibili senza un preesistente impianto di ricerca pura. Ed è quindi gioco forza che l’uomo si sostituisca alla natura nel rintracciare e sviluppare nuove ipotesi evolutive là dove la natura sembra avere fallito, come al riguardo della mortalità degli esseri viventi.

Nel 1964 Lem affermava che «rispetto alle macchine che ha creato, l’essere umano oggi è l’elemento più inaffidabile e debole» e considerava un imperativo morale il ricreare un equilibrio tra uomo e macchina. Nella consapevolezza che la tecnologia sia culturalmente sterile, e renda l’uomo prigioniero di ciò che ha creato, Lem riteneva che fosse finita l’era anomica, «preregolatoria», ponendo ante litteram tanto il problema della bioetica quanto quello di un aggiornamento della morale alla luce degli avanzamenti tecnologici.

In seguito avrebbe osservato, non a torto, che accusarlo di essere un corifeo dello scientismo tecnocratico sarebbe equivalso a imputare un epidemiologo di facilitare la diffusione di virus e germi patogeni. Al contempo, pur da anticomunista convinto qual era, faceva notare che soltanto un contesto profondamente orientato verso la ricerca di base e la riflessione metascientifica come quello socialista aveva reso possibile la pubblicazione di una nuova Summa, che trattava la tecnologia con la stessa acribia e profondità filosofica riservate da Tommaso d’Aquino alla teologia.