Speranze sfiorite, il voto è anti-sistema
Tunisia al voto Dal «dispotismo paterno» a una fragile stabilità, il paese va alle elezioni con il peso del mancato miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, dell'estremismo islamista e di partiti frammentati. Un quadro che spiega le basse affluenze alle urne e il disincanto dei tunisini
Tunisia al voto Dal «dispotismo paterno» a una fragile stabilità, il paese va alle elezioni con il peso del mancato miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, dell'estremismo islamista e di partiti frammentati. Un quadro che spiega le basse affluenze alle urne e il disincanto dei tunisini
All’improvviso arriva la tempesta. Le vie di Hammamet si allagano, straripano i wadi in torrenti limacciosi, l’autostrada lungo la costa diventa un fiume, la Grande Tunisi è sommersa da un’alluvione e nel buio di un cortocircuito scompare anche la fragile facciata della Tunisia del turismo di massa, mentre il vento strappa dai cartelloni le facce dei 26 candidati alla conquista del palazzo presidenziale di Cartagine. È solo un temporale ma è annunciato anche dal meteo della politica.
L’interrogativo, al di là dell’esito del voto di oggi e delle legislative del 6 ottobre, è se la Tunisia sia davvero un Paese stabile come si ama dipingerlo in contrapposizione con il caos della Libia e le vicissitudini del Maghreb.
Anticipate al 15 settembre dopo la morte prematura del presidente Essebsi, le presidenziali hanno visto l’esclusione dai dibattiti tv di Nabil Karaoui, uno dei favoriti, patron della tv Nessma dove è socio Berlusconi, arrestato per riciclaggio.
Nelle stesse condizioni di Karoui un altro candidato, il discusso uomo d’affari Slim Riahi, accusato di reati fiscali e in fuga in Francia. Se la giocano il candidato islamista Abdelfattah Mouruou, Youssef Chahed attuale premier, che ha creato il suo partito, Tahya Tounès, il medico Abdelkrim Zbidi, ex ministro della difesa e portabandiera di Nidaa Tounes, e anche una donna, l’avvocato Abir Moussi, che vorrebbe il ritorno di Ben Ali, cacciato il 14 gennaio 2001.
Si va verso un voto anti-sistema, secondo Hassen Zargouni, il sondaggista direttore di Sigma Conseil. Nel 2011 dopo la fuga di Ben Ali, spiega, la gente era schierata tra coloro che volevano la rottura con il regime e quelli che puntavano alla continuità. I primi guidati da Ennhada e dal partito dell’ex presidente Moncef Marzouki hanno governato per tre anni.
Ma il Paese non è migliorato, anzi si è manifestato l’estremismo più radicale. Nel 2014, gli schieramenti si sono divisi tra islam politico e società civile per poi confluire in una sorta di «consenso alla tunisina» nell’alleanza di governo tra Ennhada e Nidaa Tounes.
Ma la situazione del Paese ancora non è migliorata e si è approfondita la diffidenza tra i partiti e gli elettori. Così nel 2018 alle elezioni municipali i cosiddetti candidati «indipendenti» si sono portati via un terzo dei voti.
La speranze della Rivoluzione dei Gelsomini, nonostante la Costituzione più avanzata del modo arabo e il Nobel alla società civile, sono assai sfiorite. Con l’inflazione a tassi record e il dinaro sempre più svalutato, l’impressione è che l’elettorato tunisino vada verso un voto punitivo nei confronti dei partiti.
C’è un’ondata di protesta anti-sistema, evidenziata da scioperi e manifestazioni nelle zone più povere del Paese, che assume forma attive di protesta ma anche passive, di cui la più evidente è l’astensione dell’elettorato, deluso dalle cattive performance economiche e sociali.
Il 30-40% dei giovani non ha un lavoro e anche coloro che ce l’hanno percepiscono salari da 150 euro al mese, persino nelle decantate fabbriche della delocalizzazione italiana o francese. Un piccolo imprenditore italiano delle calzature di Hammamet è esplicito: «Ho una linea di produzione di 50 operai dove ne basterebbero venti ma li paghiamo troppo poco perché abbiano anche voglia di lavorare». E magari anche di votare.
Il partito islamico Ennhada si sta riposizionando per allargare la propria base elettorale. In un incontro con i giornalisti stranieri il candidato islamista Abelfattah Mourou, celebre avvocato tra i fondatori del movimento, definisce il suo partito come «conservatore», evitando accuratamente di fare riferimenti alla religione.
Ennhada, all’indomani della caduta di Ben Ali, è stato al governo ininterrottamente, in maniera maggioritaria o in coalizione, e dopo una serie di sbandamenti che hanno portato a falle clamorose nella sicurezza, lasciando via libera ai predicatori estremisti, ha preso una virata pragmatica, appoggiata dal capo storico, Rashid Gannouchi.
Mourou non è l’unico candidato che viene dalla corrente islamista, a testimonianza di una frammentazione del quadro politico che ha colpito ancora di più il campo dei «modernisti» e dei laici di Nidaa Tounes.
Così anche il mito della stabilità tunisina appare intaccato, tanto è vero che stanno accorrendo le missioni europee e internazionali per sostenere il Paese recipiente dei consistenti aiuti di Bruxelles e dei prestiti di Fondo monetario e Banca mondiale.
La Tunisia ha già affrontato una fase drammatica, quando nel 2013 all’università della Manouba vedevo sventolare la bandiera di al Qaeda e Ansar al Sharia (poi messa fuori legge) dominava nelle periferie: in questo quadro preoccupante ci furono due omicidi politici seguiti nel 2015 dagli attacchi al Museo del Bardo e a Sousse.
Ma la battaglia contro l’estremismo e tutt’altro che finita: tutti sanno delle migliaia di giovani tunisini arruolati nell’Isis. Il 70% è stato addestrato in Libia e ogni giorno le forze di sicurezza combattono contro i jihadisti tra le montagne di Kasserine e al confine libico. Il controllo della regioni alla frontiera con la Libia o l’Algeria però è quasi impossibile soprattutto perché dopo la fine del regime benalista si sono incrinate le vecchie solidarietà di clan.
E il contrabbando di merci, armi ed esseri umani, la fa da padrone. Come un tempo, solo che il controllo è sempre più in mano a organizzazioni legate ai libici e alla formazioni radicali. Una cifra la dice lunga: si calcolava qualche anno fa che il 40% del Pil tunisino venisse dal commercio informale con la Libia, ovvero dal contrabbando.
Si sente una certa nostalgia di Stato forte o quanto meno di uno Stato che sia stabilmente il maggiore distributore delle risorse oltre che il garante della sicurezza. La storica tunisina Leila El Houssi rileva nel suo libro (Il risveglio della democrazia, Carrocci) che dall’indipendenza dalla Francia negoziata dal carismatico Bourghiba alla caduta di Ben Ali il Paese è stato caratterizzato da una sorta di «dispotismo paterno» che con l’ultimo raìs prese derive inaccettabili. Forse non è il caso per la Tunisia di replicare il passato ma il presente è assai incerto e la paura del futuro non rende davvero liberi i nostri vicini distanti.
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