In un vecchio bunker di epoca sovietica ci sono tra le cento e le centoventi persone da quasi due mesi. Dall’ingresso mimetizzato si scende per oltre venti metri in profondità e si arriva a un corridoio grigio di cemento con delle gabbie ai lati. Ad accogliere chiunque si avventuri in quest’oscurità è il latrato incessante dei cani rinchiusi dietro le gabbie.

TRA IL CEMENTO GRIGIO lasciato grezzo e la puzza insopportabile di escrementi di animali sembra di essere in un laboratorio clandestino o in qualche altro luogo da film dell’orrore.

Una signora esce da una porta antipanico e ci guarda male, la scritta «Press» sui giubbotti antiproiettili la mette di malumore, mormora qualcosa che suona come un insulto e ci guarda di traverso. Siamo a Severodonetsk, la capitale della parte di oblast di Lugansk ancora sotto il controllo ucraino. Rubiznhe, a pochi chilometri, è in mano russa.

Dalle alture intorno i russi bombardano giorno e notte e in città tutti sono convinti che presto tenteranno di sfondare. «Ma prima martellano con l’artiglieria» spiega Oleg, il capo della polizia locale, «è la loro strategia, cercano di distruggere le nostre difese con i mortai, gli obici e gli attacchi aerei». La sede della polizia di Severodonetsk è stata colpita domenica e una parte del tetto della sala riunioni è crollato.

Da lì filtra un po’ di luce e il volto di Oleg muta dal blu al giallo, a seconda che a illuminarlo sia il suo attendente, che registra a sua volta mentre lo intervistiamo, o un raggio di sole più forte.

Oleg spiega che i poliziotti rimasti hanno potuto scegliere, «qualche giorno dopo l’inizio della guerra ci è stato chiesto chi voleva essere trasferito, principalmente a Dnipro, e chi voleva restare». In molti se ne sono andati e chi è rimasto oggi si occupa principalmente di primo soccorso, insieme ai vigili del fuoco, e di casi di sciacallaggio. «Riceviamo molte chiamate di persone che notano qualcuno entrare nelle case abbandonate o di gente che, rientrata in casa propria, si è accorta di essere stata derubata».

Oleg pronuncia quest’ultima frase con la serietà del poliziotto che usa termini tecnici durante una conferenza stampa ma tutt’intorno i boati sono incessanti e ogni tanto tremano anche i resti del soffitto che pendono al centro della sala. A meno di duecento metri si trova il rifugio. Superata la porta antipanico si apre un mondo inaspettato. Sulla destra una ragazza fa le unghie a una signora con tanto di macchina ai raggi UV e ferri del mestiere. Si chiama Olga, faceva l’estetista di mestiere e dopo due settimane nel bunker ha deciso di mettersi a disposizione delle altre rifugiate.

«PRIMA AVEVO UN PICCOLO centro tutto mio» spiega Olga, «con i macchinari e i prodotti; dopo il 24 febbraio ho smesso di fare qualsiasi cosa e il tempo non passava più». Allora Olga ha deciso di avventurarsi fino al negozio, recuperare qualche macchinario e montarlo su un banchetto sottoterra, nel rifugio.

«Quando fai qualcosa le giornate passano più in fretta e per un po’ di tempo riesci anche a non pensare» racconta, mentre la figlia piccola, con le trecce ancora corte ai lati del capo gioca sul cellulare facendo finta di non considerarci ma sbirciando di soppiatto di quando in quando.

La bambina chiede qualcosa alla madre a bassa voce e poi si imbarazza, la mamma sorride e spiega che la piccola vuole sapere perché stiamo facendo se stiamo facendo un film. Superata Olga, tuttavia, lo scampolo di quotidianità si esaurisce nel dramma della guerra. Decine di persone in ambienti separati da pallet, lenzuoli e tende.

ANCHE I LETTI SONO RICAVATI dai pallet e sulle sedie o su secchi capovolti si appoggiano i pochi effetti personali portati fin quaggiù. Ludmila, una signora di sessant’anni circa, spiega che se non fosse per gli aiuti alimentari che gli consegnano le autorità locali non saprebbero come fare. Ci sono molte persone anziane, alcune sole, altre invalide, come un’anziana che quando mi avvicino invece di arrabbiarsi si copre il volto perché è spettinata e si sistema il cappotto per non apparire in disordine.

Di fronte a lei altre due anziane sono sedute su un letto, una di fianco all’altra, e si tengono la mano. Ricordano le ragazze nei corridoi delle scuole superiori, sembra che si stiano confidando un segreto, fissandole dimentico per qualche secondo che fuori da quel sotterraneo c’è una guerra dalla quale quelle due vecchie devono nascondersi da due mesi. Non sono parenti, si sono conosciute qui, ma sembra che si vogliano molto bene.

Sorridono e si mettono in posa per una foto. È evidente che lo stesso maglione, la trapuntina e il cappello di lana che hanno indosso non lo tolgono da tempo. Una di loro si scusa perché deve andare a cucinare e mi saluta affettuosamente, come una nonna, prendendomi una mano con entrambe le sue e baciandomele in una specie di benedizione.