Sotto attacco il sindacato che torna al conflitto
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Sotto attacco il sindacato che torna al conflitto

Piazze piene Il contesto è avverso. Va ricordato che la lotta contro il potere di mobilitazione del sindacato è un classico dei governi neo-liberali
Pubblicato circa un anno faEdizione del 18 novembre 2023
Piazze di nuovo piene, effervescenza collettiva, azione pubblica: il lavoro che chiede di essere ascoltato dalla politica. Non può che essere una buona notizia. Il contesto è avverso: dalla decisione della Commissione di garanzia, fino all’esultanza del ministro Salvini, va ricordato che la lotta contro il potere di mobilitazione del sindacato è un classico dei governi neo-liberali. Margaret Thatcher, lo ha ricordato su queste pagine Ken Loach, ne fece una delle sue priorità, erodendo le leggi che proteggevano il potere dei sindacati e rendendoli poi responsabili di azioni illegali in caso di violazione. Ed è impossibile non sottolineare quanto la gioia sguaiata di Salvini sia conseguenza degli equilibri interni alla maggioranza.
Per sviare l’attenzione lontano dai suoi fallimenti politici (in primis la mancata abolizione della “Legge Fornero”), prova a recuperare terreno a destra. Lo fa ricorrendo alle parole d’ordine care alla base elettorale della maggioranza: padroncini, micro-impresa, piccola borghesia, commercio.
C’è poi un ulteriore piano interpretativo, che rimanda non alle continuità di lungo periodo dei regimi neo-liberali o alle contingenze politiche, più o meno miserevoli, interne alle destre al governo, ma al tema della rappresentanza. La stagione delle grandi mobilitazioni sindacali degli anni ’70 era riuscita a tenere insieme conflitto e concertazione, termini che ora tendiamo a leggere come tra loro alternativi. La mobilitazione degli anni ’70 si basava sul buon funzionamento del cosiddetto “mercato politico”, dove un soggetto (il governo) che ha beni da redistribuire è disponibile a scambiare questi beni per ottenere il consenso da altri soggetti dotati di forte capacità di aggregazione degli interessi e, quindi, di conflitto sociale organizzato.
Oggi, però, la concertazione non rimanda al potere del sindacato all’interno di un modello conflittuale, ma viene interpretata, all’opposto, come una sua alternativa. Con le grandi privatizzazioni del 1992, i governi proposero al sindacato uno scambio diverso. Se il sindacato avesse accettato il controllo dei salari, il governo avrebbe garantito una politica di difesa della lira e di bassi tassi d’interesse, sia per impedire spinte inflazionistiche, ma soprattutto per permettere l’erogazione di mutui a quanti volevano acquistare beni immobili. La proprietà della casa in cambio del controllo sulla crescita dei salari. Il sindacato cambia pelle: mette sullo sfondo il modello conflittuale e scommette sull’erogazione di servizi (ne scrive Sergio Bologna in “Tre lezioni sulla storia”).
Come nota Paolo Feltrin nell’ultima numero dei “Quaderni di Rassegna Sindacale”, è interessante sottolineare che il modello post-conflittuale non ha comportato il tracollo dei sindacati come organizzazioni. Scrive Feltrin: «Se guardiamo al sindacato italiano dal punto di vista organizzativo c’è da rimanere sorpresi: oggi Cgil, Cisl e Uil contano il numero più alto di sedi mai avute in Italia, più di 7.000; un numero di stipendiati mai avuto prima, circa 25.000; almeno 200.000 delegati eletti nei luoghi di lavoro; un fatturato di oltre un miliardo l’anno; oltre 5.000.000 di pensionati iscritti; un numero di iscritti attivi più basso dell’apice anni Settanta, ma sempre più di 6.000.000».
Una crescita organizzativa, però, che ha visto aumentare il numero dei sindacalisti «impiegati d’ufficio», mentre le funzioni del sindacato negoziale/conflittuale sono state relegate in secondo piano. La sigla che ha più spinto su questo modello è la CISL, che non a caso non ha aderito allo sciopero generale. Ma – nota sempre Feltrin – è pur vero che tutte le nuove sedi sindacali assomigliano a centri commerciali multiservizi, con sale d’attesa, bar e spaccio di prodotti «equi e solidali». Spesso, anche la loro collocazione logistica è analoga quella dei centri commerciali.
In questo quadro, è cruciale ricordare che la concertazione delle politiche economiche – vuoi quella conflittuale anni ’70, vuoi quella al ribasso degli anni ’90 – si fa in tre e non in due. Il grande assente sono le organizzazioni di rappresentanza degli imprenditori, che confermano una volta di più come per loro la concertazione sia una «seconda scelta». Vi ricorrono solo se devono farlo, preferendo invece la negoziane bilaterale o la completa libertà del capitale. In questo momento, sanno che la politica guida con il pilota automatica e ha ben poco da scambiare. Meglio non sedersi ai tavoli verdi di Palazzo Chigi con le rappresentanze dei lavoratori. Meglio negoziare bilateralmente e lasciare il lavoro sporco alla politica.
@FilBarbera

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