Nella moltiplicazione dei titoli che riverberano fra i molti cataloghi d’accompagnamento alla personale di Sophie Calle al Musée Picasso, fino al 7 gennaio, per onorare il cinquantenario del pittore spagnolo è assurto ai manifesti quello, assai evocativo, recitante À toi de faire, ma mignonne, in eco in tutto il marketing della prestigiosa raccolta parigina.
Fuori di rebus, l’avvertimento è desunto, con precisione filologica, da un’uscita un po’ dimenticata della celebre collana Gallimard di gialli, la «Série noire», e cioè da un romanzo di Peter Cheney del 1941 che, in inglese, reca un’intestazione meno brillante – Your Deal, My Lovely – mentre in lingua d’oltremanica si è adattato a questa formula intrepida, in tono perfetto con l’acida ironia di Calle.
Abituati ai suoi calembours cerebrali, verrebbe anzi da credere che la scelta sia caduta su un volume, tanto distante nei temi e nel linguaggio, per il complesso gioco di specchi costruito dall’autore nel ricorrere al medesimo titolo per un capitolo al centro del racconto. Proprio in queste pagine, al cuore della narrazione, si legge infatti uno scambio di battute fra Lemmy Caution, il proverbiale detective, esperto, disilluso, e una delle sue fascinose comprimarie; scambio che per la ghignante, spregiudicata tessitura suggerisce più di un riverbero nell’articolatissimo, divertito intervento disseminato dall’artista lungo le sale del museo.
Uno dei paragrafi del terzo capitolo introduce infatti Montana Kells, giovane stretta in un triangolo pericoloso, e la sua confessione al protagonista, presenza abituale per le opere più acclamate dello scrittore: «Signor Caution, lo sa di certo, la vita può essere difficile per una ragazza come me. Ci sono momenti in cui avrei davvero bisogno di qualche buon consiglio, del tipo di quelli che lei ha tutta l’aria di poter dare». L’insolenza si guadagna la risposta sbruffona dell’interlocutore: «Signora, ha ragione. Allo stesso tempo, però, mi chiedo – glielo confesso – come sappia chi sono io e perché mi stia spiando ormai da qualche tempo».
Nel tortuoso incontro di sguardi che, al primo piano dell’Hotel Salé, Calle ha imbastito con le tele e le dichiarazioni di Picasso pare di riconoscere la tessitura seduttiva di un botta e risposta tanto metropolitano, nudo degli arzigogoli di un romantico corteggiamento…

In percorso, il romanzo di Cheney s’incontra del resto al centro di una sala che, attorno alla sua accattivante copertina, raccoglie una serie di autoritratti picassiani; come se l’allocuzione del titolo, scritto nelle lettere enormi di un’edizione economica, si rivolgesse in prima battuta all’artista francese («è il tuo turno, bella!»), per bocca dei volti maschili, tutti identici ma più giovani o più vecchi, stretti in cerchio ai lati della vetrina. In un tanto malizioso labirinto di rimandi, assume un senso diverso – e non solo politico, non solo attuale – l’aver fatto affidamento per una ricorrenza di peso, l’omaggio al più macho fra i geni del Novecento, sulle «intermittenze» sottili di un’altra maestra, ormai riconosciuta, dello stesso secolo.
Perché è Calle per prima a ricollocare un’opzione inevitabilmente «contemporanea» – non a caso, nel sous-sol, le tappe esistenziali del malagueño sono dette attraverso i volti delle sue compagne, nella scelta di opere dalla collezione disposte secondo nuovo criterio – in accordo con diversi universali, traslando il tema del confronto di genere a quello, non meno sessualizzato, dell’essenza di un’eredità.
L’artista, nei quattro piani occupati per l’occasione, varia sui ruoli di figlia e di madre, dialogando col padre – sia esso Picasso o un genitore gentile, da poco scomparso – e con una progenie mai partorita; discettando insomma su ciò che ci anticipa e su quanto rimane, per fare i conti – in una certa misura, gli unici possibili – coll’inventore in figure dello «ieri», coll’artefice della modernità e col suo peso impossibile, incommensurabile per l’oggi. In questo tour de force, il cui limite maggiore sta forse nell’eloquenza di sfogo a lungo studiato, Calle continua pertanto a tracciare le pagine di un diario, fra veritiero, verosimile e fittizio, confondendo piani di realtà, tempi diversi e distanti, ipotesi solo congetturate. E nel sofisticare sul ‘creatore’ per eccellenza (il rosa e l’azzurro, il cubista, il neoclassico, il tornato all’ordine, il picassiano, il comunista, la leggenda pop), si diverte a nasconderne il catalogo, a renderlo invisibile, a supporre cosa esso possa comunicare, per uno spettatore odierno, più del mare per chi non lo ha mai incontrato, più dell’ultima immagine per chi ha perso la vista, più dei colori sognati per chi è nato cieco.
Con l’intelligenza aguzza e acuminata di una bimba capricciosa, che ama tormentar lucertole e trafiggere ali di farfalla, valuta addirittura un mondo senza il maestro, con l’idea di onorarne la fine e sottolinearne il lascito: acre e pettegola, intervista per lettera il ladro che nel 2010 ha sottratto, assieme ad altri capolavori, una tela celebre dell’andaluso, Le pigeon aux petits pois, dalle raccolte del Musée d’art moderne de la Ville de Paris; e s’incuriosisce del suo disinteresse per l’oeuvre dell’artista, a cui il malfattore preferisce, senza dubbio, Modigliani o Matisse. In prospettiva analoga, Calle riproduce par coeur, in un’impossibile rigenerazione, in un’avventura borgesiana dello sguardo, le sue tele conosciute e mai dimenticate, perdute, non più riviste, rimaste impresse solo in un angolo della memoria, come la Testa sottratta alla Richard Gray Gallery di Chicago e poi ritrovata nel 1995, in un suv inseguito dalla polizia.
Nell’incessante, intellettualistico arrovellarsi su quanto sopravvive dell’arte dello spagnolo (al furto, alla morte, alla banale corrosione di ogni silhouette), Calle sabota del resto – con arguzia consapevole – il mito più solido del Novecento «museale», per ricomporlo con gli strumenti della propria parabola creativa. In questo senso l’eredità trascorre per un’invisibile appropriazione, che cambia di segno alle icone e al personaggio. Fra le più riuscite installazioni in mostra, pertanto, spicca la Guernica allusa con opere di mani diverse, tutte provenienti dalla casa dell’artista francese: unite da una storia relazionale, affettiva, le foto, i dipinti, i feticci replicano le misure dell’immenso «manifesto» madrileno, sostituendo alla drammatica propaganda di quell’«affresco» un programma non meno convincente, fitto di segni e rapporti, di confidenze e vicinanze, di pudore e impudore.
La capacità di generare – per non dire di ‘disseminare’ – è del resto il focus che il progetto persegue nell’inquisire il significato di un anniversario, traducendo le urgenze di celebrazioni siffatte nei quesiti sollevati da uno sguardo «al femminile». Non a caso, la più ambiziosa infilata di sale, si costruisce come un interminabile inventario post-mortem degli oggetti e dei tesori posseduti da Calle, affidato alla casa d’aste Drouot e figurato come effettiva messa all’incanto. L’interrogativo è crudele ma assieme paradossale, innescando lo slapstick irresistibile di risposte – artistiche ed esistenziali – che riguardano il destino di una vita, al termine di una parabola pur piena, in assenza di custodi designati. Al visitatore si consegnano i «beni» della donna; e questo affidamento è, innanzitutto, la rimessa di storie e ricordi che – lo si capisce – sono state l’humus stesso della sua pratica artistica.
Cosa ha generato, invece, il legato di Picasso? Il responso, messo in scena a Parigi, rimane elusivo ma, nel moltiplicarsi dei suggerimenti, sembra alludere, attraverso il capzioso affabulare di Calle, alla necessità inevitabile, propria alla domanda che ha originato l’esposizione. È così insomma che gli avventori del museo, eredi nominati dalla Calle, ritornano alla paternità di un artista, senza cui sarebbe stato impossibile immaginare il nostro presente.