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Solo sei mesi di Bolsonaro e l’Amazzonia è già in ritirata

Solo sei mesi di Bolsonaro e l’Amazzonia è già in ritirataUn pescatore sul fiume Jaraua nella riserva di Mamiraua, nell’Amazzonia brasiliana – Afp

Brasile Dati choc: a giugno +60% di tasso di deforestazione. Come 106mila campi da calcio. Il governo brasiliano minimizza, ma dietro questi effetti ci sono le politiche di sfruttamento della destra

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 5 luglio 2019

Il destino dell’Amazzonia non è mai stato tanto a rischio. Secondi i dati divulgati il 3 luglio dall’Inpe, l’Istituto nazionale di ricerca spaziale, il tasso di deforestazione registrato a giugno è stato il più alto dal 2016, crescendo addirittura del 60% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: 762,3 chilometri quadrati di area disboscata contro i 488 del giugno 2018, equivalenti a 106mila campi da calcio.

Nei primi sei mesi di governo Bolsonaro sono andati perduti, a causa di incendi e disboscamento illegale, 2.273 km quadrati di foresta, pari a una volta e mezza il territorio della città di São Paulo. E se le rilevazioni dell’Inpe dovranno attendere a fine anno la conferma del più affidabile programma satellitare governativo Prodes, è indubbio che indichino una chiara tendenza alla crescita.

Non potrebbe essere altrimenti, considerando alcuni dei passi finora compiuti dal governo Bolsonaro, tra la soppressione del Dipartimento per le foreste e la lotta al disboscamento, la proposta di affidare una ventina di parchi nazionali all’iniziativa privata e il lancio di un Fronte parlamentare in difesa dell’Amazzonia impegnato in realtà a promuovere l’attività mineraria nella regione con la scusa di scongiurare l’estrattivismo illegale.

Non sorprende che, di fronte ai dati, il governo non si scomponga, puntualizzando, rassicurando, sdrammatizzando. O – come ha fatto in queste ore Bolsonaro – tacendo. Poco prima che venissero divulgati, il ministro Augusto Heleno, capo dell’Ufficio di sicurezza istituzionale, aveva dichiarato alla Bbc che «gli indici di deforestazione in Amazzonia vengono falsificati», mentre la ministra dell’Agricoltura Tereza Cristina, nota come la “musa dei pesticidi”, ha rassicurato il mondo: «Se ci saranno motivi di preoccupazione, il Brasile sicuramente interverrà», ma non si può «cadere in questa isteria che esiste intorno all’ambiente senza avere certezze».

Nessun commento invece da Bolsonaro che pochi giorni fa, al G20, aveva negato qualsiasi processo di deforestazione, denunciando la «psicosi ambientale» in atto. Un po’ sulla falsariga di suo figlio Eduardo, che non molto tempo prima aveva ricordato come il 61% del territorio brasiliano mantenga «la stessa vegetazione dei tempi di Adamo ed Eva», contro «l’1% dell’Europa».

La quale Europa, in ogni caso, di fronte alla possibilità evidenziata da 340 organizzazioni della società civile di «inviare un segnale inequivocabile» al governo Bolsonaro, congelando l’accordo tra Ue e Mercosur in attesa di una decisa svolta in materia ambientale (e sociale), ha invece preferito procedere in tutta fretta alla firma, con buona pace della lotta contro la deforestazione.

Eppure non è certo un mistero quale sia l’obiettivo di Bolsonaro in Amazzonia: quello di trasformare aree protette e terre indigene in pascoli per l’allevamento del bestiame, latifondi di soia e miniere. Magari insieme all’amico Trump, a cui non a caso ha proposto di sfruttare la regione «in maniera congiunta», così da impedire che la comunità internazionale, con la Chiesa in prima fila, sottragga al Brasile la sua foresta. Anche «se la stampa all’estero dice che voglio distruggere l’Amazzonia – sostiene il presidente – in realtà quello che voglio è che resti nostra».

Gli scienziati avvertono: se il tasso di deforestazione superasse la soglia del 25% – attualmente è del 17%, che arriva al 20% nella parte brasiliana – l’Amazzonia sarebbe condannata a trasformarsi in una triste savana appena interrotta da alcuni boschi. Con conseguenze inimmaginabili non solo per il Brasile, ma per l’intero pianeta.

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