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Soldi pubblici per le fonti fossili: spesi 18,8 miliardi l’anno

Soldi pubblici per le fonti fossili: spesi 18,8 miliardi l’annoUna piattaforma petrolifera

Ambiente La battaglia di Legambiente contro i sussidi diretti e indiretti al settore «oil and gas»: oltre 14,3 miliardi di euro all’anno di aiuti sono eliminabili in parte subito e del tutto entro il 2025. Ma nel «Piano energia e clima» non è previsto nessun impegno

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 28 marzo 2019

Il Cip6, il sussidio diretto alla produzione di energia elettrica da fonti fossili più noto e longevo, attivo dal 1992, costa all’Italia 444 milioni di euro all’anno. A fine 2017, secondo il Gestore dei servizi energetici (Gse), risultano in esercizio 20 impianti che ne fruiscono. A sostenere la spesa è, per oltre la metà del valore complessivo, il cittadino, con la famigerata «componente A3» della bolletta.

IL CIP6, PERÒ, È SOLO una della forme con cui lo Stato continua a incentivare il settore Oil&Gas: la somma totale è pari a 18,8 miliardi di euro secondo Legambiente, che ieri ha presentato da Ravenna (dov’è in corso l’Omc-Offshore Mediterranean Conference & Exhibition, appuntamento biennale dedicato al settore energetico internazionale) il rapporto Stop sussidi alle fonti fossili.

Un esempio paradossale sono le esenzioni in merito al costo del carburante che riceve il trasporto aereo, uno dei settori più impattanti in materia di cambiamento climatico, che ne beneficia per ben 1,5 miliardi di euro all’anno.

Questo dato è tratto dal Catalogo dei sussidi ambientalmente dannosi e favorevoli, pubblicato dal ministero dell’Ambiente nel 2017 (i dati fanno riferimento al 2016), secondo il quale il settore trasporti riceve sussidi in forma di sconti ed esenzioni per complessivi 6.98 miliardi di euro.

Legambiente, che a dicembre – alla vigilia della chiusura della Cop24, la Conferenza Onu sul clima di Katowice (Polonia) – aveva consegnato al governo 35mila firme per chiedere lo stop ai sussidi, oggi rinnova la richiesta all’esecutivo guidato da Giuseppe Conte, chiedendo anche di aggiornare il Catalogo, che è in ritardo di almeno 9 mesi: il documento di rendicontazione per il 2017 avrebbe dovuto essere presentato e reso pubblico entro il 30 giugno dello scorso anno.

«La cancellazione dei sussidi alle fonti fossili è stata uno dei cavalli di battaglia del Movimento 5 Stelle, ma nell’ultimo Piano energia e clima non è previsto nessun impegno e il tema viene trattato solo marginalmente» spiega un comunicato di Legambiente.

L’INVENTARIO DEI SUSSIDI alle fonti fossili è un campionario dell’orrore climatico: oltre al Cip6, dentro ci si trovano i sussidi alle trivellazioni oltre alle esenzioni e le riduzioni per l’utilizzo di combustibili fossili in diversi settori considerati energivori, ma anche gli extracosti per le isole minori, che valgono appena 64 milioni di euro ma rappresentano una ipoteca per il futuro: questa voce ripaga infatti la produzione di centrali vecchie e inquinanti in regime di monopolio, un vero freno all’innovazione.

L’operatore controlla anche la rete, impedendo di fatto lo sviluppo di impianti da fonti rinnovabili per potrebbero rendere le nostre isole un modello oil free per l’Europa.

SECONDO L’ANALISI dell’associazione ambientalista, oltre 14,3 miliardi di euro all’anno di sussidi alle fonti fossili sono eliminabili in parte subito e del tutto entro il 2025, mentre 4,5 miliardi di euro possono essere rimodulati, nello stesso settore o in altri, ma in modo da spingere l’innovazione e ridurre le emissioni.

Che cosa manca? La volontà politica, «e se non lo si fa è perché evidentemente si vuole continuare a proteggere una rendita di cui beneficiano alcune imprese» sottolinea Legambiente. Che guarda in particolare a due ambiti, le royalties e i finanziamenti pubblici all’industria fossile.

Per quanto riguarda il primo aspetto, i «diritti» sono pari al 10% per le estrazioni in terra ferma e del 7% per quelle in mare. A beneficiarne sono i principali operatori, come Eni ed Edison.

Un confronto europeo aiuta a capire meglio l’anomalia italiana: in Norvegia le royalties sono in media del 78%, nel Regno Unito oscillano tra il 68 e l’82%, in Danimarca il sistema non esiste più e il prelievo fiscale tocca il 77%. Anche nei Paesi a bassa produzione simili all’Italia, come Irlanda e Francia, le tasse pagate dalle società per produrre gas e petrolio arrivano fino al 50%.

Per questo, Legambiente propone di adeguare le nostre royalties portandole almeno al 30%: invece di 117,5 milioni ci troveremmo con un gettito da 414 milioni di euro.

Senza contare le esenzioni: in base alle leggi italiane, sono esenti dal pagamento di aliquote allo Stato le prime 20mila tonnellate di petrolio prodotte annualmente in terraferma, le prime 50mila tonnellate di petrolio prodotte in mare, i primi 25 milioni di metri cubi standard di gas estratti in terra e i primi 80 milioni di metri cubi standard in mare.

UN SECONDO ASPETTO critico riguarda i finanziamenti pubblici a progetti internazionali: tra il 2017 e il 2018 – secondo Legambiente – sono state almeno 10 le operazioni che hanno coinvolto una o più società del gruppo Cassa Depositi e Prestiti a sostegno del settore Oil&Gas, per un ammontare complessivo di 2,21 miliardi di euro, 1,49 miliardi dei quali nel 2018.

Un altra forma di sostegno è quello delle garanzie a finanziamenti, come quelle garantite da Sace (la società controllata dalla Cassa depositi e prestiti) per i 625 milioni di dollari che Bbva Sa Milan Branch ha concesso alla Kuwait National Petroleum Company per l’ammodernamento e l’espansione delle raffinerie Mina Abdullah e Mina Al-Ahmadi in Kuwait.

O il supporto assicurativo di Sace a Sicilsaldo per la realizzazione di un nuovo metanodotto in Messico. O ancora l’acquisizione da parte di Simest (società controllata al 76% dalla Sace) dell’11% di Ansaldo Energia Switzerland. Società partecipate dallo Stato su cui il governo Lega-M5S ha già preso il controllo.

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