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A Prato le emissioni tessili sono di moda

A Prato le emissioni tessili sono di modaUna produzione tessile a Prato foto Archivio manifesto – Archivio manifesto

Inquinamento Nel distretto tessile più grande d’Europa, un occhio al riciclo ma gli scarti delle lavorazioni porterebbero Pfas, inquinanti e gravi patologie

Pubblicato circa 5 ore faEdizione del 17 ottobre 2024

Prima era chiamata «La città delle tre dita» a causa dei numerosi infortuni sul lavoro. Poi è diventata «La città dei cinesi», per la forte immigrazione asiatica degli ultimi 30 anni. E sempre con un unico filo conduttore: il tessile. Prato, capoluogo di provincia limitrofo a Firenze, in Toscana, è da secoli legato al tessile, tanto da diventarne uno dei più grandi distretti mondiali. Da subito con le lane – dove il riciclo era fondamentale essendo un materiale costoso – poi con le altre lavorazioni. Un fatto facilitato dalla presenza delle acque del fiume Bisenzio e del torrente Ombrone, che la attraversano e costeggiano. E se da una parte questo ha reso ricca la città – e ne ha fatto un centro nevralgico della moda con aziende che lavorano o hanno lavorato per brand come Burberry, Prada, Valentino o Armani – dall’altro ha generato nel tempo un problema dettato dalle lavorazioni e dagli scarti.

«COI DATI CORRENTI NELL’AREA PRATESE si evidenziano criticità ambientali della qualità dell’acqua correlate all’attività industriale storica specifica del territorio» – commenta Francesco Cipriani, direttore Ufc Epidemiologia Ausl Toscana Centro. I dati correnti di Ars e Ispro, prosegue il direttore, «evidenziano possibili criticità rilevanti, ma non consentono di escludere fattori di rischio con minore impatto sanitario, come potrebbero essere quelli legati all’inquinamento correlato all’attività industriale e tessile in particolare».

«L’INDUSTRIA TESSILE si è sviluppata quando non si teneva conto dell’ambiente – spiegano Maria Rita Cecchini e Marco Benedetti di Legambiente Prato. L’acqua delle tintorie finiva nei terreni e nelle acque del fiume, che diventava a volte rosso, altre blu, giallo… Non c’erano più nemmeno le rane. Quello che si trova oggi in acque, terreni e fogne, può risalire anche a 10, 20, 30 anni fa o più. Poi le cose sono indubbiamente migliorate».

PER CERCARE DI CAPIRE COSA era finito e finisce nelle acque a seguito delle lavorazioni, Greenpeace le ha fatte analizzare. La ricerca era soprattutto sulle perfluoroalchiliche – meglio note come Pfas – un gruppo di sostanze chimiche artificiali che conferiscono ai prodotti scivolamento, resistenza al calore, all’olio, alle macchie, al grasso e all’acqua. «Abbiamo cercato Pfas agli scarichi dei depuratori che finiscono nell’Ombrone e nel Rio Calicino – chiarisce Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace – e trovato valori molto alti. In un distretto così grande è difficile capire chi sbaglia ma significa che ci sono aziende che li usano. Le fonti potrebbero essere molte e l’inquinamento avere origini remote. Già nel 2013 uno studio del Cnr Ispra disse che alla foce dell’Ombrone c’erano livelli di Pfas paragonabili a quelli veneti. Sono passati più di 10 anni e non ho visto l’attivazione della macchina pubblica per fare qualcosa». Sulla presenza di Pfas, associazioni come il Forum toscano movimenti per l’acqua hanno provato a mandare una lettera alla Regione. «Non ci hanno mai risposto – afferma Rossella Michelotti, portavoce del Forum – c’è un silenzio assordante».

“SUL SITO DI ARPAT – precisa Andrea Vincitorio, ingegnere ambientale – viene fuori che la contaminazione nella falda è nulla. Ci sono misurazioni di pozzi a uso idropotabile dove sono presenti Pfas, non in concentrazioni altissime, che saranno probabilmente eliminati in gran parte dagli impianti di potabilizzazione. Publiacqua per suo statuto giuridico non è tenuta a dare queste informazioni al pubblico e non sappiamo se e quanti ne beviamo. Il rapporto di Greenpeace denuncia che non vengono analizzati di routine quelli di nuova concezione e per di più non viene fatta un’analisi del fluoro organico totale».

SECONDO I DATI DI ARPAT, se nell’area pratese c’è una zona a inquinamento diffuso per la presenza di composti organo alogenati nelle acque sotterranee e per la quale è stato attivato il tavolo regionale di gestione, anche la qualità dell’aria non è ottimale. Quanto pesi in questo l’industria della moda, non si sa. Di sicuro i dati dell’Agenzia europea per l’ambiente dicono che gli acquisti di prodotti tessili nell’Unione Europea hanno generato 270 chili di emissioni di C02 per persona nel solo 2020. E le emissioni globali di carbonio sarebbero il 10 per cento del totale, più di traffico marittimo e voli internazionali messi insieme.

«OLTRE AL TRAFFICO, A LIVELLO INDUSTRIALE le attività più impattanti – sottolinea Tommaso Chiti dell’Osservatorio Ambientale – sono tintorie, lavanderie e lavorazioni che utilizzano processi chimici. Spesso si tratta di impianti non moderni, attivati di notte per evitare di sforare i livelli di inquinamento visto che di giorno c’è anche il traffico. Questo mix fa di Prato e la zona circostante una fra le città più inquinate d’Italia, forse anche d’Europa. Nell’ambito tessile poi impattano i prodotti chimici, in primis il tetracloroetilene». Per ovviare al problema delle sostanze chimiche, tante aziende pratesi dal 2016 hanno sottoscritto l’impegno Detox di Greenpeace, col quale producono intere filiere produttive e oltre 13 milioni di tessuto ogni anno senza prodotti dannosi per l’ambiente. «Sono una piccola parte del totale – osserva Silvia Tarocchi di Confindustria – con obiettivi molto ambiziosi. Ci stiamo concentrando sui Pfas che sono un po’ in tutti i settori, non solo nel tessile, e che sono inquinanti eterni».

INSIEME AL CONSORZIO «DETOX», tante aziende hanno riguardo per l’ambiente. «Prato è un punto di eccellenza per riciclo ed economia circolare – dichiara Fausto Ferruzza, presidente di Legambiente Toscana – poi se ci sono aziende che infrangendo la legge smaltiscono, commerciano o come dire trafficano su rifiuti tessili, questa è un’altra partita. Ma è la patologia non la fisiologia del distretto».

LO SMALTIMENTO ILLEGALE DEI RIFIUTI, è una piaga. «È un fenomeno rilevante – spiega l’ispettore Massimo Caciolli – svolto con furgoni che possono portare anche 40 sacchi di scarti tessili dal peso che oscilla tra i 30 e 50 chili l’uno, provenienti da confezioni e pronto moda solitamente cinesi. Finiscono nelle vie, nel Bisenzio e anche in altre province. Il particolare è che se i cinesi lavorano spesso in subappalto, appaltano lo smaltimento ad altri stranieri, come nordafricani o pachistani. E chi viene beccato rischia una multa o il sequestro del mezzo, solitamente furgoni vecchi e scassati, difficilmente di più».

SE GLI EFFETTI DELLA LAVORAZIONE e lo smaltimento illegale degli scarti possono essere un problema, anche quello legale è ritenuto tale da tanti cittadini. In particolare per quelli della zona di Prato Sud, tra Paperino, Fontanelle, Cafaggi e San Giusto. Una zona di confine, vicina ai macrolotti industriali e che pur essendo residenziale ha nelle sue vicinanze l’impianto di depurazione con vasche all’aperto di via Baciacavallo, ozonizzatore, elettrodotto, gasdotto, turboespansore e la A11. «Non si sa bene cosa faccia peggio – osserva Chiti – è la zona dove chiunque io conosca, e ci sono cresciuto, ha almeno un caso di malattia tumorale o degenerativa in famiglia, soprattutto linfomi non Hopkins, malattie cardiache, tumori e cancri. Quando siamo andati nel 2019 a chiedere una mappatura all’ufficio epidemiologico dell’Asl di Prato, ci hanno detto che andava fatta ma poi nessuno ha fatto nulla».

UNO STUDIO EPIDEMIOLOGICO ESTESO manca anche se in realtà indagini fatte anni fa dall’Istituto superiore di prevenzione oncologica avevano già evidenziato che nella zona di Baciacavallo «la mortalità per il tumore del polmone, nei residenti entro un raggio di 1,5 chilometri dall’impianto, è più che raddoppiata».

«HO CAMERA CON VISTA sul depuratore-inceneritore – commenta Sonia Fligor del Comitato in difesa della salute di Prato sud – dal quale viene su una nebbiolina carica di sostanze inquinanti che si concentrano moltissimo all’interno delle goccioline come dice una ricerca dell’università di Firenze che si conclude con potrebbero nuocere gravemente alla salute. Sembra che nessuno lo sappia ma qui c’è un inceneritore di rifiuti speciali, ovvero dei fanghi di depurazione. Questo produce sostanze che poi restano nell’aria e nell’acqua come Pfas e non solo. Anni fa l’Ausl analizzò le diossine presenti in polli e oche e trovarono valori pari a 46 nanogrammi per chilogrammo quando il limite è 3. Il rischio relativo di tumori è di 2,28, ossia più del doppio rispetto alle altre zone della città. E ora vogliono fare un mega capannone industriale di 8 mila metri quadri, un impianto di disidratazione dei fanghi, un biodigestore anaerobico e l’hub di riciclo del tessile con conseguente aumento del traffico e per il quale la comunità europea ha destinato poco più di 800 milioni di euro. E, ciliegina sulla torta, un nuovo mega inceneritore, più grande e che accoglierebbe anche altri tipi di rifiuti, a 59 metri da una scuola e 100 da un asilo in una zona residenziale. Sono anni che protestiamo, la gente muore e nessuno ci ascolta. Anzi, si peggiora la situazione».

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