Skolimowski a colori, cinema e pennelli
Jerzy Skolimowski, XII, 2003
Alias

Skolimowski a colori, cinema e pennelli

Fuoriclasse Poco prima del premio a Cannes per il suo ultimo film, la mostra pittorica «In Painting I Can Do Anything»

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 4 giugno 2022

Il Premio della giuria ricevuto pochi giorni fa a Cannes da Jerzy Skolimowski, poeta, attore, cineasta e pittore, con un passato in patria da pugile, lascia intendere la portata del suo talento.

Ma quale unità utilizzare per misurare la potenza espressiva dell’artista multidisciplinare polacco? Si potrebbero usare i cavalli, oppure pardon, gli asini, magari sardi. Lui ne ha impiegati sei per il film premiato sulla Croisette che racconta le peripezie di un somaro dalla Polonia all’Italia. Ispirato a Au Hasard Balthazar (1966) di Robert Bresson, l’ultimo film che aveva fatto piangere lo Skolimowski spettatore in sala, la storia di Eo è incentrata su un solo personaggio.

Quelli di Variety non farebbero fatica a definire questo film un «one-hander», anche se a caricarsi in groppa il peso di interpretare il ruolo dell’omonimo protagonista del film, sono appunto 5 controfigure asinine. Forse non è un caso che lo Skolimowski regista abbia funzionato meglio con i film a un solo personaggio.

Si prendano ad esempio i primi due lungometraggi girati in Polonia che contengono la promessa mai mantenuta di una nouvelle vague autoctona, dopo gli exploit della scuola polacca di Lódz negli anni Cinquanta: Rysopis – Segni particolari nessuno (1964) e Walkover (1965) gravitano entrambi attorno al personaggio di Andrzej Leszczyc, studente di ittiologia e pugile in cerca di un’identità che non si oppone una seconda volta alla chiamata per il servizio di leva.

Ma anche Essential Killing (2010), ricompensato con il premio della giuria a Venezia, si regge interamente sulla performance adrenalinica di Vincent Gallo nei panni di un sospetto terrorista detenuto in un black site della Cia in Polonia, prima di una tentata fuga a perdifiato tra i boschi innevati del Paese sulla Vistola. Per fortuna, al Grand Théâtre Lumière Skolimowski ha risposto «presente» per ritirare in prima persona il riconoscimento cannense.

Qualche giorno prima, invece, aveva dato forfait per motivi di salute al Film Music Festival di Cracovia. In tale occasione un’orchestra diretta da Jan Stoklosa ha interpretato le colonne di alcuni dei suoi maggiori successi sul grande schermo. Ma l’ex pugilatore ha comunque dispensato colpo su colpo aneddoti sul suo rapporto con la musica in un videomessaggio destinato al pubblico della kermesse cracoviana. Lui che avrebbe voluto David Bowie per la soundtrack di L’australiano (1978) e che una volta aveva chiesto invano a Tony Banks, scelto poi per le musiche dello stesso film, di lavorare a un sound come quello dei Pink Floyd.

D’altro canto del suo rapporto con la musica ne avevamo parlato proprio sulle pagine de il manifesto: «Sebbene Jimmy Hendrix fosse mio vicino di casa a Londra, anch’io ho provato a suonare la batteria ma ho capito subito che non faceva per me», aveva confessato in un’intervista apparsa nell’agosto 2015 su Alias. A questo punto, ci manca solo che Skolimowski, freschissimo del premio a Cannes, si metta a fare anche il musicista.

A Cracovia, però era passato tre settimane prima per il vernissage della mostra «In Painting I Can Do Anything», organizzata dalla Fondazione Off Camera presso il Museo Manggha dell’arte e della tecnologia giapponese, fondato dall’amico e collega Andrzej Wajda. Nella pittura Skolimowski è consapevole che gli viene concesso quasi tutto.

Non ci si deve per forza confrontare con il prossimo o chiedere ad ognuno di fare la propria parte come sul set di un film. Tra sé stesso e il supporto per dipingere ci sono di mezzo soltanto i colori senza tutte le complicazioni del profilmico. Senza il fiasco del film Thirty Door Key (1991) tratto dal romanzo Ferdydurke di Witold Gombrowicz – scrittore complicatissimo da trasporre su un palco o al cinema – con ogni probabilità, non ci sarebbe stato alcuno Skolimowski pittore, lui che non era stato ammesso in gioventù all’Accademia di Belle Arti di Varsavia per mancanza di talento.

Nella sua villa di Santa Monica immersa in un silenzio interrotto soltanto dal suono della onde del Pacifico, l’artista polacco aveva trovato l’ambiente ideale per cominciare a dipingere negli anni Novanta. Ha quasi sempre optato per una pittura astratta all-over, realizzata con colori acrilici. Senza disegni preparatori scompare anche la paura di sbagliare. L’impressione è che attacchi quasi sempre a testa bassa il supporto e il risultato sembra tradire la splendida irruenza dello Skolimowski pittore.

Con un temperamento del genere difficile diventare un boxeur professionista. L’artista polacco avrebbe abbandonato presto il ring, e di questo, da fruitori della sua arte, non possiamo che essergli grati. La prima personale arriva nel 1996 proprio in Italia presso la galleria Weber a Torino. La predilezione per i formati grandi tradisce la sua «nostalgia per lo schermo», come ha ribadito lui stesso in più di un’occasione. Il suo approccio alla pittura è istintivo.

A noi aveva raccontato di lasciare colare i colori da una tazza su una tela posta in orizzontale. La pittura sembra calzare a pennello all’ego arrembante dell’artista polacco che i questo campo è più libero di affidarsi al caso rispetto al cinema. Skolimowski riprenderà poi la sua carriera dietro la macchina da presa dopo una lunga pausa con 4 notti con Anna (2008). A questo punto, guai a pensare che per lui la pittura sia solo un passatempo, infatti, non smetterà più di dipingere ma comincia a dare dei titoli numerici ai numerosi lavori realizzati dopo il suo rientro in Polonia.

Pittura e cinema formano dei compartimenti stagni nella produzione di Skolimowski, il quale non ha mai pensato di integrare i suoi dipinti in un film, come aveva fatto invece in Hana-Bi (1997) Takeshi Kitano, altro cineasta con il vizio del pennello. E poi meglio essere onesti, le tele di Skolimowski hanno continuato nel corso degli anni a vendere bene, soprattutto oltreoceano, un motivo in più per continuare a dipingere.

Il critico cinematografico Jacek Szczerba sulle pagine del quotidiano polacco Gazeta Wyborcza, ha raccontato che tra gli acquirenti delle opere di Skolimowski ci sarebbero anche Jack Nicholson e Dennis Hopper. Quest’ultimo possiede almeno tre opere dell’artista polacco, tutte finite accanto ai lavori di Basquiat sulle pareti di casa Hopper. Gli ultimi anni, funestati della pandemia da COVID-19, l’artista polacco li ha invece trascorsi in Sicilia. Ma si sbaglia di grosso chi crede che la luce del mezzogiorno abbia cambiato il suo stile materico in cui c’è più lava che sole.

E poi c’è anche il bianco dei suoi autoritratti con bandana, utilizzato per cancellare, non soltanto volti, ma intere porzioni della superficie pittorica in numerosi altri lavori. Tonalità di bianco, come quelle della neve filmata in Essential Kiling, che puliscono la mente, permettendo così ogni volta a Skolimowski di «fare vuoto» di sé e del proprio lavoro, almeno secondo una concezione taoista del termine. Ma per cogliere l’essenza della sua personalità forse vale la pena tornare su alcuni versi dello Skolimowski poeta, scritti negli anni Cinquanta e disseminati, con fare godardiano, qua e là anche nei suoi primi film:

«L’uomo alla stazione che dice: non so
perché sono qui
Finché dopo molti anni o dopo qualcosa
come la giovinezza o l’amore
con la mano alla gola vuole aggiustare tutto
e si aggiusta la cravatta».

L’artista polacco non è mai stato un idealista che sogna di cambiare il mondo e le cravatte nemmeno non le ha mai volute indossare durante la sua carriera. Vi presentiamo Skolimowski, un anticonformista concreto, di successo in diverse discipline e da sempre allergico ai nodi sulla gola.

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