Sissako, principe del deserto
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Sissako, principe del deserto

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La notte degli Oscar Nella città simbolo della spiritualità africana prende vita un poema di resistenza alla barbarie che vorrebbe cancellare ogni traccia di civiltà, nomination all'Oscar come miglior film straniero

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 21 febbraio 2015

Città misteriosa, Timbuktu è stata per almeno due secoli, dal 1300 al 1500 considerata la città dell’oro, città inaccessibile nel deserto del Mali. Ma non certo per Abderramane Sissako un principe del deserto oltre che del cinema, che ha l’ha scelta come titolo simbolico del suo ultimo film, in concorso agli Oscar come migliore film straniero.

E un tesoro lo è veramente Timbuktu, patrimonio dell’umanità dell’Unesco (quattro siti protetti sono stati distrutti da Al Qaeda), dove si conservavano preziosi manoscritti e le opere di Avicenna e dove è stato ritrovato un manoscritto di Averroè, prima che gli jihadisti dessero fuoco a intere biblioteche, capitale spirituale dell’Africa sud sahariana dalle 150 scuole coraniche. Finché l’esercito francese e maliano hanno ricacciato gli estremisti ed è stato possibile tornare a vivere.

Questo film segna, diceva il regista il senso di liberazione degli abitanti. È una risposta altissima alla barbarie che raccoglie e srotola antichi fogli, riporta come trasportata dal vento parole che non si possono azzittire, le parole stesse dei padri.

L’antilope che sembra volare sulle dune nell’incipit, in assenza di sonoro, è una visione di cinema come poche altre volte abbiamo visto (un cervo improvviso nel cinema di Zanussi, i cavalli al galoppo in Jancso). Il suo colore si mimetizza con quello della sabbia e il silenzio che, appunto, non è assenza di sonoro, ma presenza silente.

È un potente simbolo della cultura del Mali e con la sua corsa folle mette in scena l’energia vitale di un essere padrone del luogo. Si farà presto a capire che la sua stessa esistenza è minacciata da individui che sparano in aria per stancare la preda, così come sono abituati a fare con gli abitanti del posto. Individui in jeep e mitraglietta, le sole dotazioni di cui si ha notizia, possedute realmente dai fanatici.

Il film in apertura mette a confronto due entità contrapposte, l’una dotata di grazia e civiltà, l’altra non appartenente in ogni caso al genere umano, tantomeno animale, basterebbe lo sguardo perso e il ronzio di cervelli che hanno perso le coordinate.

Il titolo in francese quando è stato presentato a Cannes era «Timbuktu, Le chagrin des oiseaux» (il dolore degli uccelli) e questo non fa che sottolineare la gerarchia degli esseri raccontati nel film.

La civiltà antica del luogo è spazzata via dai colpi a ripetizione che si incattiviscono su simboli che non possono difendersi, le statue di legno che rappresentano qualcosa di ancestrale, diventati chincaglieria sui marciapiedi di Parigi, un segnale che ci aveva trasmesso anche Iosseliani.

Eppure da una bocca spalancata di un simulacro, certamente un oggetto rituale, esce fumo, come un grido muto, una divinazione. Vengono mitragliate divinità, mitici antenati, coppie primordiali, oggetti tramandati nei secoli, a colpire una spiritualità considerata sacrilega.

Invece di annunciare la vendita della verdura con l’altoparlante il veicolo gira per il paese ricordando a tutti che è vietato fumare, è vietata la musica, il gioco del calcio e, sia ben chiaro, che le donne devono portare le calze e i guanti e gli uomini devono tenere i pantaloni arrotolati alla caviglia. Oltre alla poesia anche l’humour fa parte dello stile di Sissako

. La musica si sa tocca corde non controllabili, Chahine di quel divieto aveva tratto un’opera magnifica con il suo Al-Massir (il Destino, 1997). Le reazioni non tardano a farsi sentire («coprite il capo» «Se ti dà tanto fastidio non guardare» oppure: «mettiti i guanti» dicono alla pescivendola che, da par suo, sa come rispondere per le rime). E se proprio non si può giocare a pallone si può discutere sulla supremazia di Zidane e Messi o mettere in scena una plastica, ottima scema di partita di calcio giocato da due squadre di ragazzini senza profferire un solo grido, senza pallone, ma con gesti eloquenti, una scena che ha un che di cinema dell’est che lui ben conosce, un che di spirito yiddish, che in questo contesto fa un’impressione travolgente.

Con lo stesso spirito lo sberleffo all’ossessione per la nudità (da parte di questi impotenti masticatori di viagra, come si legge nelle cronache di questi giorni) viene risolta in maniera del tutto inaspettata.

L’andamento poetico del film potrebbe essere esso stesso musica, ritmo suonato sulle poche corde delle arpe africane, i versi scarni dei poemi maliani (Dio sa perché/Il cieco avvoltoio/vola dal suo ramo…).

È infine una leggerezza che fa male al cuore tanto incide in profondità ed è allo stesso tempo accusatorio e liberatorio per la gente, un modo per scacciare le immagini dell’orrore.

Nei corsi della storia si è già sentire parlare di questi fantocci, ma come opporsi se non con le loro stesse armi? Addestramento e fulmineo spostamento di obiettivo? Sissako contrappone invece la pazienza millenaria, la consapevolezza, l’accettazione della paura, la certezza di essere nel giusto, di aver interiorizzato gli insegnamenti dei padri.

Non vogliono fuggire, gli abitanti del luogo e abbandonare le terre degli antenati, ricche di acqua e di quel poco che basta a vivere. La loro stessa vita è una preghiera. In qualche caso tra gli insegnamenti ricevuti (insieme a un’arma), c’è anche come difendersi dai soprusi, anche se la via del ritorno sarà lunga come il rimorso, lungo il gigantesco corso d’acqua, presenza non secondaria del film.

Sulle grandi tragedie Sissako è in grado di indugiare, ma lasciare traccia indelebile di una lapidazione attraverso una brevissima scena spoglia e filtrata attraverso le vibrazioni dell’atmosfera rovente.

Sono gli assassini in jeep che invece dovrebbero avere paura della potente maledizione lanciata da qualche marabù, ancora in circolazione, nei loro variopinti abiti e presi dalla cura dei galli simbolo di combattività.

LA BIOGRAFIA

Abderrahmane Sissako è nato a Kiffa in Mauritania nel ’61, è vissuto in Mali, ha studiato alla scuola di cinema di Mosca, il Vgik, realizzando Oyktyabr (Ottobre), un titolo emblematico, cortometraggio che fece subito scalpore alla sua uscita.

Si è stabilito poi a Parigi e l’Africa con le sue storie al limite del surreale è entrata nei suoi film successivi: mentre in Ottobre il gelo moscovita agghiacciava lo studente africano in La vie sur terre (1998) racconta il ritorno al villaggio, per cercare la vera vita e cercare se stesso. In Heremakono (Aspettando la felicità, 2002) presentato al Certain Regard a Cannes, dove ottenne il premio Fipresci della critica internazionale e primo premio Fespaco nel 2003: un ragazzo in abiti occidentali che non sa più parlare la lingua del suo paese, torna ma con la valigia sempre pronta, in un affascinante intreccio di personaggi inaspettati.

Ci mostra come con gli stessi occhi si possono vedere e raccontare non il particolare del paese natio, ma l’universale del genere umano oggi in gran parte sradicato e regala agli spettatori l’annullamento della distanza con personaggi in cui ci si può rispecchiare.

Bamako del 2006 (fuori concorso a Cannes) racconta i contrasti all’interno di una famiglia mentre nel cortile comune si tiene frattanto un avvenimento inaspettato, un processo che vede la società civile africana accusare la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, interpretato da veri avvocati. Un film sugli effetti della globalizzazione sull’Africa.

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