Sinistra di classe e il silenzio dopo Praga
Articolo pubblicato sul manifesto del 13 maggio 1971
La Cecoslovacchia ci ha divisi come il movimento comunista e le forze di classe non erano stati mai. Uno scontro anche più aspro si era venuto costituendo attorno al conflitto fra la Cina e l’Unione sovietica; ma aveva tracciato un filo rosso, una linea chiara fra destra e sinistra. Da una parte i revisionisti attorno all’Urss, dall’altra le forze rivoluzionarie, che cercavano diversa ispirazione, in Mao, nel Vietnam, in Guevara.
Nell’invasione della Cecoslovacchia il filo rosso s’è ingarbugliato. Contro si sono schierati i più revisionisti dei partiti revisionisti, ma anche la Cina Popolare.
Era il 1968: con l’invasione si schierarono vecchi compagni di larghe zone operaie, e, se non un avallo, un silenzio le fu concesso dalle stesse nuove avanguardie. Si sono, insomma, trovate dalla stessa parte della barricata forze fra loro radicalmente divise, e viceversa.
Questa incertezza non è cessata. Anche se dall’emozione di quei giorni molte cose si sono chiarite, e ben pochi compagni siano ancora disposti a credere che l’Urss sia entrata a Praga per difendere il socialismo, della Cecoslovacchia si preferisce non parlare.
Tacciono i partiti comunisti, tutti «normalizzati». Tace la sinistra di classe, salvo qualche tentativo di riprendere pubblicamente il discorso, da parte il più delle volte di organizzazioni dì origine trotzkista.
Solo la Cina, nel documento sulla Comune, è tornata brutalmente sulla denuncia. Questo silenzio circonda anche le forze che in Cecoslovacchia tendono a costituirsi in una opposizione che si vuole socialista – e rischia di diventare un fossato profondo che separa la nostra dalla loro rivoluzione.
Certo, questo silenzio ha da parte delle avanguardie di classe un motivo: ed è la difficoltà di intendere le forme che assume, nei paesi comunisti legati al blocco sovietico, una opposizione. Sono stati di polizia; la loro prima richiesta è di libertà.
Sono paesi più che stratificati divisi, senza comunicazione fra operai e operai, operai e studenti – giocati spesso anzi, come avvenne drammaticamente in Polonia nel marzo 1968 l’uno contro l’altro – da un potere accorto e spregiudicato: il primo bisogno è riscoprirsi popolo, ritrovare i valori del gruppo o della nazionalità o perfino dei rapporti personali e umani.
Sono stati in cui si è fatto del marxismo, del socialismo, uno strumento di dominazione – la prima richiesta è una verifica della stessa ideologia. Sono stati dove non esiste, o è stato soffocato, un abbozzo di potere proletario: la classe operaia non ha unificato né guida la società. Cosi l’opposizione si traduce in una voce operaia spesso ancora chiusa in se stessa, elementare, anche se aspra – come in Polonia – o in una ricorrente tentazione socialdemocratica e liberale, o in tentativi confusi di una ricerca di «sinistra».
Nulla di questo è fatto per piacere alle avanguardie formatesi in Europa. E che, se di storia sanno poco giacché in politica è vera storia solo quella che una generazione vive sulla propria pelle, sanno però quanto ambigua sia la parola libertà, quante vergogne nasconda la nostra democrazia, quanto invischiate di repressione le istituzioni, quanto ambigue le rivendicazioni degli intellettuali – quanto pericolosa insomma una via d’uscita non radicalmente rivoluzionaria dalla crisi delle società dell’Est.
Nel «nuovo corso» le avanguardie sentirono soprattutto questo limite e questo pericolo anche perché era il più evidente – quella operaia invece si formava appena e fa, come sempre, meno rumore. Per questo i gruppi rivoluzionari europei tacciono o diffidano.
Si sbagliano, e sbagliamo con loro quando diventiamo complici di questo silenzio. Sbagliamo, perché la malattia delle società socialiste soffoca non solo loro, ma il nostro orizzonte; ed è compito non solo loro, ma nostro assumercene interamente la crisi e la contraddizione reale in cui si dibattono.
Sbagliamo, perché non comprendiamo che la fragilità e parzialità di queste opposizioni esprime la difficoltà – la impossibilità, forse come dimostra anche la rivolta più limpida, quella degli operai polacchi – di uscire da un limite democraticistico o corporativo finché in occidente non ci sarà un interlocutore concreto, credibile, in una forza e in un processo che sia insieme rivoluzionario e alla scala dei loro problemi, quelli, come i nostri, d’una società matura.
Ai compagni che cercano una strada nei paesi socialisti, non ci stancheremo di dire non ci sarà via di uscita dalla dominazione sovietica – che non è soltanto militare – senza un ribaltamento profondo delle loro società, sotto una nuova egemonia operaia; e che quindi questa, prima di ogni altra cosa, va ricostruita che lotta per la libertà è lotta di classe.
Ogni altra strada, non è che non ci piaccia perché «liberale», ma perché illusoria: la vera lezione dell’invasione del 1968 è questa. Di questa verità non sempre ci sembra venga presa interamente coscienza – neppure nel documento che qui pubblichiamo.
Ma perché questo nostro discorso sia inteso, occorre che essi sappiano in modo inequivoco, che siamo con loro per una Cecoslovacchia libera e socialista. Che non cesseremo di denunciare la farse del cosiddetto XIV congresso, e chi ci andrà. Che, insomma, nella loro lotta noi – non le forze revisioniste – siamo i compagni.
Articolo ripubblicato ne “Il secolo di Rossana“, supplemento speciale al manifesto del 23 aprile 2024
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