Pensose riunioni intorno a dubbi per noi cruciali
In un graphic novel di sei o sette anni fa dedicato alla storia dell’associazione Antigone e del suo perdurante impegno per i diritti delle persone recluse, l’ottimo disegnatore Valerio Chiola ritrasse una Rossana Rossanda cinquantenne intenta a discutere con me e altri sul mutamento dei paradigmi dello stato di diritto, che norme e prassi giudiziarie di quel periodo – era la fine degli anni Settanta – rischiavano di produrre, in nome dell’emergenza che il dilagare degli episodi di lotta armata stava determinando.
Quelle strisce rappresentano, schematizzate, riunioni attorno a un tavolo, colloqui a due, persone intente alla scrittura di documenti. Vi traspare chiaramente il dubbio: perché noi tutti, abituati a contrapporre all’opacità delle questure la pubblicità del confronto nelle aule del tribunale, vedevamo un progressivo slittamento di questo confronto verso pratiche tipicamente poliziesche, quasi che la cosiddetta “emergenza” determinasse la costruzione di una cultura unica, dove la centralità non era più data all’accertamento dei fatti, della responsabilità e dei contesti, ma era posta sulla posizione soggettiva delle persone indagate o imputate, sul loro schierarsi rispetto a ciò che era individuato come il male da sconfiggere. E il processo diveniva un momento di questa lotta.
Il tratto con cui Rossanda viene delineata nel fumetto è riflessivo, gentile e fermo, così come il suo carattere. Mi chiede a un certo punto, nel leggere alcuni atti dei primi processi che si andavano celebrando “questa è l’emergenza di cui parliamo, Mauro?”, rievocando un termine che sarebbe diventato, negli anni successivi, emblematico di una cultura contro cui si sarebbe posta in termini critici la rivista “Antigone”, che il manifesto editò nei primi anni Ottanta.
Dentro quei modelli che negano le radici dei problemi e che non offrono il necessario sguardo lungo per individuare le tracce di una possibile soluzione, Rossana vedeva il rischio della fine della politica, quale fattore di costruzione evolutiva del pensiero e dell’agire collettivo. Perché già la leggeva sopraffatta da una pseudocultura di corto respiro, affannata da una successione di inseguimenti del presente, senza una capacità di lettura prospettica e priva anche della consapevolezza del passato.
Ero imbarazzato in quei colloqui, e forse nel ricordo odierno conta per me rievocare più le ragioni di quell’imbarazzo che non i temi che hanno attraversato quella fase del suo pensiero; altri lo faranno meglio di me.
Il mio era un imbarazzo molteplice, segnato dalla distanza di prassi politica, di esperienza personale e di studi, che già mi avevano colpito nelle mie precedenti collaborazioni episodiche al giornale e che ora attorno ai temi spinosi di quel finire degli anni Settanta, si acuiva grazie alla frequentazione più assidua e a un confronto più diretto.
Già aveva un effetto quasi intimidatorio leggere il cognome del filosofo Banfi, suo maestro e antico suocero, sul campanello di casa. Suonavo timoroso per partecipare alle riunioni informali con comuni maestri di diritto – Ferrajoli, Saraceni, Rodotà, Palombarini, Bronzini fra gli altri – che spiegavano a noi esterni alla materia i nodi della torsione della cultura giuridica che si stava delineando.
Quella partecipazione ricordava a me, proveniente da altre discipline, quanto studio debba sempre sorreggere chi vuole costruire in sé la capacità di comprendere sia i movimenti e le lotte di cui con slancio si era parte, sia quelli apparentemente distanti.
Mi indicava, come attitudine essenziale per leggere il presente, la decifrazione di una continuità con la propria storia e con le proprie categorie di analisi; ma mi segnalava anche la necessità di una continua apertura alla discussione su di esse.
Rossana leggeva nel rifiuto della politica di riconoscere il problema della deriva “poliziesca” una pseudocultura di corto respiro, affannata da una successione di inseguimenti del presente, senza capacità di letturaMauro Palma
Ritrovo l’aspetto rigoroso che coglievo in lei durante le discussioni di quegli incontri nelle linee schematiche di quel graphic novel, dove è ritratta bella e pensosa. L’essere pensosi era proprio di quei dibattitti.
Ripercorrendoli in occasione della scomparsa di Rossana ho ricordato come la riflessione su quel paradigma emergenziale si affiancasse però all’analisi, anche dura, sulle radici e sugli snodi che avevano indotto settori del vasto movimento degli anni precedenti a imboccare la via della lotta armata, mai negando l’origine di quei percorsi e aprendosi da qui alla necessaria tutela
di garanzie e diritti, in un ordinamento che sappia essere costituzionalmente definito.
Non negavano la radice di quei percorsi – lo disse chiaramente con una espressione più volte ripresa e che suscitò anche polemica nella sempre imperante ortodossia del suo antico partito.
La redazione consiglia:
Le Br e quell’«album di famiglia»Ma proprio per questo era più forte la critica a quegli esiti e più ferma la necessità di recuperare la capacità di leggere quelle disarticolazioni e ritrovare l’ordinarietà democratica, senza però perdere il contributo al futuro di una generazione politica.
La riflessione pensosa nasceva tuttavia anche dalla consapevolezza dell’inusualità del tema delle garanzie all’interno del pensiero e della tradizione comunista: solo la sua non scissione dall’analisi dei processi che si erano sviluppati nella complessità sociale lo teneva al riparo da concessioni al pensiero liberale.
Da questa connessione si sviluppò l’originalità di una riflessione sul valore non meramente formale delle garanzie e parallelamente sul rischio della depoliticizzazione di vicende che la lettura delle aule dei tribunali svuotava del contenuto storico e sociale, rileggendole con le due lenti della ordinaria criminalità e della straordinaria potenza antidemocratica.
La centralità che Rossanda volle dare a questo percorso si concretizzò prima nell’esperienza del Centro di documentazione sulla legislazione d’emergenza, poi nella rivista “Antigone”, cui dedicò molte energie, anche nella sua affermazione all’interno della redazione del manifesto; da allora punto di riferimento attorno a un tema che non era nella tradizione classica marxiana.
Ormai il mio imbarazzo era superato, ma non la mia attenzione alle sue parole e, soprattutto, ai suoi consigli di lettura; sempre seguiti.
Negli anni e nelle vicende che hanno accompagnato la crescente attenzione al tema della detenzione, dato il suo espandersi progressivo non solo come sistema di repressione del crimine, ma soprattutto come sistema di controllo e di penalizzazione delle diverse forme di minorità sociale, i temi del mio impegno, soprattutto nel Comitato europeo di controllo sulla privazione della libertà, sono stati argomento di maggiore reciprocità in uno scambio divenuto molto frequente.
Spesso sono diventato per Rossana fonte di conoscenza di come questo sistema punitivo, in Italia e altrove, si andava riconfigurando ed espandendo e quali forme assumeva la sua crescente rilevanza nella costruzione del consenso sociale.
In anni recenti ci si incontrava a Parigi, in un baretto che conoscevamo entrambi, e avevo quasi l’impressione di una raggiunta simmetria nel nostro dialogo. Forse erano i capelli bianchi – ormai anche i miei –, forse aiutava la parte dell’incontro in cui ci narravamo vicende personali che ci accomunavano nella doverosa, amorosa e dura assistenza di entrambi a persone a noi care.
Forse l’insoddisfazione per le vicende politiche presenti che tuttavia non cessavano di essere per lei – e in fondo anche per me – il senso della quotidianità. Attraverso cui leggere anche ciò che da tali vicende appare inizialmente distante.
Articolo pubblicato ne “il secolo di Rossana“, supplemento speciale con il manifesto in edicola il 23 aprile 2024
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