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Il tempo di Enrico Berlinguer

Il tempo di Enrico BerlinguerEnrico Berlinguer durante un comizio a Parco Sempione (Milano) durante la festa dell'Unità del 1979 – Adriano Alecchi /Mondadori via Getty Images

1984-2024, il caso Berlinguer L'editoriale di Rossana Rossanda dal manifesto del 12 giugno 1984, per la morte di Enrico Berlinguer

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 7 giugno 2024

Pubblicato sul manifesto il 12 giugno 1984

È il segretario del partito comunista con il quale si è consumata la nostra rottura, dopo decenni di milizia, che muore oggi. È un uomo che sentivo ancora meno vicino, come formazione culturale, di Palmiro Togliatti. È l’uomo che nel Compromesso storico delineava la linea opposta a quella che come manifesto avremmo voluto, anzi andava oltre a quel che avevamo paventato. È l’uomo che a nostro avviso sbagliò la diagnosi dei grandi movimenti sociali degli anni Settanta, producendo guasti immensi, lasciando priva di riferimenti magari polemici, ma almeno non nemici, una giovane generazione politica.

Eppure si è spento un nostro compagno, ci pesa come quando si chiude un pezzo di vita con la morte di chi ha avuto peso nella nostra vita.

È che si è spento un comunista. Che la sua linea fosse del tutto diversa da quella che, a nostro avviso, il Partito comunista avrebbe dovuto seguire, non lo fa meno comunista. Nel modo di essere, nel pensarsi rispetto a un compito, un destino, con l’arroganza e l’umiltà che occorre per pensarsi in questo modo. Nell’aver messo questo al centro della sua vita. Nell’aver dato risposte, giuste o errate che siano state, a una sola domanda: che fare per il popolo, per quella classe operaia così duramente battuta dal muoversi del capitale, per chi vuole cambiare, e come, e che cosa.

Questo è da comunisti, con tessera e senza, segretari di partito o di sezione che siano. Come è da comunisti quel lavorare sino allo sfinimento, quel non lasciare il palco mentre ci si sente soffocare, quel sapere che si rappresenta, al di là di se stessi, una anche se sempre più incerta speranza e questa va conservata, mantenuta, difesa, a qualsiasi costo. A costo della vita.

E poi, a costo della vita? Questa vita i comunisti la vogliono. Non si sacrificano, hanno dato a se stessi questo segno, se lo inchiodano dentro mentre da ogni parte viene messa in causa la loro identità e non dai soli nemici, ma da dubbi che li travagliano. Non sono eroi, appartengono alla gente che crede che l’arco breve della nostra esistenza è meglio abbia un senso, uno scopo, gente che conosce quanto sia elusiva e crudele la lotta nel mondo, ma quanto più elusiva e crudele quella limitata alle mura del proprio io e più immiserente.

Sono dei privilegiati, coloro che vivono e muoiono come Enrico Berlinguer.

La copertina del manifesto del 12 giugno 1984 sulla morte di Enrico Berlinguer
La copertina del manifesto del 12 giugno 1984 sulla morte di Enrico Berlinguer

Dicono che questa razza si estingua, e che sia un bene. Non ne sono certa, ma nessuno è tenuto a essere certo per il futuro. Intanto, la pena di quelli del manifesto che vengono dal Pci, con il quale hanno duramente battagliato in questi anni nella scommessa di guerreggiare col padre, senza maledire il padre, è una pena grande.

Fa parte di questa pena, per i più vecchi di noi, il non riuscire a vedere il Pci in grave difficoltà o in errore senza patirne. E non perché eravamo della famiglia: noi siamo comunisti, ma di quella specie che con le famiglie rompe, e non riaccomoda facilmente.

È che questa grande massa di uomini, molto mista ed eterogenea, è essenziale dal 1945 ad oggi alla storia del paese: lo crediamo ancora. Cosi gli sbagli del Pci li sentiamo come sconfitte e alcune storiche, perché non è vero che nella storia non ci sono mai occasioni mancate: ci sono, eccome, esattamente come nella vita personale.

Viene il momento nel quale il mondo di chi ti sta attorno ti pone domande decisive e la risposta o è giusta o sbagliata, nel senso che farà crescere o spegnere te stesso o gli altri. Molte risposte di Enrico Berlinguer furono esitanti, o fuori tempo o sbagliate.

E lo diranno in molti, finiti i giorni del rispetto per la morte, ma non credo nel senso con il quale lo diciamo noi. Per i quali Enrico Berlinguer ebbe un momento di pura intuizione politica; nel 1969, quando doveva prendere la successione di Longo, che deteneva di fatto dopo la malattia di quest’ultimo.

Per non ferire una parte del partito non arrivò al fondo della crisi dei socialismi reali, la riflessione sulla “terza via” fu più debole e anche questa intuizione rimase moncaRossana Rossanda su Berlinguer

Non era però uomo per il quale una investitura formale non avesse senso. E gli toccava dopo il 1968: grande ondata di rivolta, per la prima volta mondiale, contemporanea, non guidata né prevista dai partiti comunisti e anno dell’invasione della Cecoslovacchia, punto di non ritorno nella politica sovietica. E con il congresso nel quale si apriva nel partito una lacerazione non più conosciuta dopo il 1929: da sinistra, con noi e più vasta di noi, perché non tutti, anzi pochi ci seguirono fino in fondo nello scontro.

Quella volta, in quel XII congresso, Berlinguer doveva concludere; si barricò in albergo e fece, credo, il suo più bel discorso. Perché non era soltanto affermativo, ma problematico, aperto, dubbioso; ci parve di sentirvi, allora, una percezione vera della dimensione dei cambiamenti che maturavano. Allo stesso modo non la sentimmo, poi, più; o sempre in qualche modo offuscata, sfumata, dall’imperativo primo – tenere unito il partito, non esporlo oltre ogni limite di compatibilità.

Questo è un dilemma vero per chi dirige una grande forza politica, e che abbia di essa la visione che una volta Togliatti ebbe a dire a Milano, e penso Berlinguer condividesse: un partito è come un grande corpo, non se ne mutila una parte senza che il corpo ne risenta tutto.

Così anche l’iniziativa più importante che ebbe Berlinguer, lo «strappo» – è una parola un po’ sciocca; meglio, la sicurezza che occorreva dissociarsi per sempre da quella storia, quel modello, quella solidarietà con l’Urss che pure era stata fondativa dei partiti comunisti – allentata nei tempi, resa più povera dalle prudenze. Ma non ferire una parte vecchia, nel senso nobile, del partito costò al Pci non andare a vedere il fondo della crisi dei «socialismi reali», e quindi indebolire tutta la riflessione sulla «terza via».

Anche questa intuizione importante, decisiva, e collegata alla prima, rimase monca, per l’irrisolta analisi dei rapporti sociali reali, oggi rispetto al 1917, e dell’idea di «rivoluzione» oggi rispetto al 1917. Analisi e revisione che avrebbero investito a fondo questa massa umana sulla sua storia e coscienza di sé.

Ascolta l’editoriale di Luigi Pintor su Berlinguer letto da Valentina Carnelutti (scopri gli altri su A voce scritta)

Lo stesso far del partito il cardine d’ogni scelta avrebbe condotto Berlinguer ai suoi due più grandi errori, e poi alla riflessione su di essi.

Il primo fu il Compromesso storico che nacque non da una ingenua velleità di mediazione, ma dalla preoccupazione di salvare il partito, dopo l’esperienza cilena, da un trend di fascistizzazione mondiale senza più ormai nessun affidabile blocco socialista a contrastarla.

Quell’errore di prospettiva fu grande: l’Europa stava andando non a destra, ma a sinistra e i veri problemi che si stavano delineando non erano quelli della difesa, ma dell’attacco; e quale, in una società come la nostra, per una gestione non socialdemocratica e non giacobina del peso e del potere che la sinistra veniva assumendo.

Lo stesso sarebbe accaduto con i movimenti alla sinistra del Pci, che la scelta dell’unità nazionale, coerente con l’analisi pessimista di cui si diceva, lasciava privi di interlocutori e alla deriva: quando, nel 1977 Berlinguer parla di «diciannovismo» non soltanto non capisce quel che succede, né le sue «basi materiali reali» – errore che Togliatti non avrebbe commesso, non fosse che per la sua maggiore realistica empiria – ma teme un precipitare della situazione politico/sociale che inchiodi il Pci con le spalle al muro.

Rompe con quella sinistra, per formazione, e soprattutto per paura d’una situazione per tutti ingovernabile; può farlo perché col 1973 ha saggiato che le incertezze sue sono anche quelle del corpo militante, e i cui umori e quadri sono mutati a sufficienza per andare a quell’accordo con la Dc nel 1976, che sarebbe stato impensabile dieci anni prima. Lo illude anche la crescita enorme del partito dopo il 1973: come se indicasse un accordo con la linea abbozzata dal 1973 e non fosse la capitalizzazione «rossa» della crisi dei movimenti. Ci mette molto tempo a capirlo: è Berlinguer che frena un dibattito importante dopo le elezioni del 1978 che gli dicono dove ha sbagliato. Ne tirerà le conclusioni tardi.

Certo, le dimensioni del compito erano enormi, e più le ingigantivano i ritardi, quella sua stessa attenzione a non precipitare – la formazione ideale, cui era richiesto uno sforzo di modifica eccessivo.

Perché quest’uomo, sotto il cui nome andrà la politica più di «destra» fatta dal partito, specie sul terreno dello stato e delle istituzioni, non è stato un uomo della «destra» comunista.

Sappiamo bene che pochi ci seguono in questa analisi, come quando qualcuno di noi dice che Togliatti non fu un uomo né di destra né socialdemocratico. Berlinguer lo stesso. Erano tutti e due più figli dello Stalin del 1936, dei Fronti popolari – a condizioni mutate – che non parenti di Bernstein o Turati. Da questa eredità si libera soltanto il Berlinguer della terza via: ma questa implica una rifondazione totale. I cui germi stanno, iscritti controluce, in questo decennio; ma ci vorrà tempo a ricostituirli.

Questo tempo a Berlinguer è stato tolto, e forse non è alla sua generazione né alla nostra che sarà dato di coltivarli. C’è chi pensa che non sono semi, ma grani morti, residui d’una speranza, il comunismo, che non va custodito per altri tempi, ma sempre è stato utopia, che non va rivisitata, ma maledetta.

La storia dirà se è così.

Per noi vecchi comunisti, eretici, l’immagine di quest’uomo riservato che si sente morire e continua a parlare alla sua gente, che è stanchissimo ma tira avanti, non è un’immagine esistenziale: quella di una bella morte, quella che avrebbe voluto. È ancora un valore. E il momento in cui avviene, e quel che lascia, è anche il segno feroce della comune impotenza, che ci ha divisi; che ha reso nemici alcuni che stavano dalla stessa parte.

È una storia tragica – non una piccola, modesta storia. Il filo di pessimismo che lega le scelte di Berlinguer ne fa parte, non la esaurisce. Da troppi anni non sappiamo di lui abbastanza per dire: è morto durante un cammino, del quale non è stato capace di evitare le buche e le nebbie e le trappole e le deviazioni, ma sicuro in se stesso che un cammino esiste, da qualche parte, vicino, nel profondo di tutti i non rassegnati. Ma salutiamo pensandolo così il compagno dal quale ci siamo divisi.

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