Cultura

L’ossessione di un «sillabario» per la destra al potere

Casa museo di Antonio Gramsci a GhilarzaCasa museo di Antonio Gramsci a Ghilarza

Il caso Gramsci Qualche riflessione intorno al libro di Alessandro Giuli «Gramsci è vivo». Mentre la Fondazione An si prepara al convegno sull’egemonia culturale, l’intellettuale comunista viene maldestramente narrato dal nuovo ministro del Mic

Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 21 settembre 2024

È complicato scrivere del libro di Alessandro Giuli, Gramsci è vivo. Sillabario per un’egemonia contemporanea, edito da Rizzoli nell’aprile scorso (tanto più che la settimana prossima la Fondazione An mette in piedi un convegno su Gramsci e Gentile: Esiste l’egemonia culturale? Proprio l’egemonia…).

Se non altro il suo libro cita, parla di, discute con ed elogia un mare di personalità a sinistra, a destra, in alto e in basso, e sempre in maniera generica: da Fukuyama a Yascha Mounk, Mazzini, Lenin, Pindaro, Eraclito, Claudio Rutilio Namaziano, Maurizio Bettini, Montale, l’architetto Paolo Portoghesi (attraverso cui arriva addirittura fino ad Heidegger), Plinio il Vecchio, Guido Calogero (ad abundantiam), il ministro (ora ex) Sangiuliano, il commentatore dell’Eneide Servio Mauro Onorato ecc. ecc.

E ci si limita a una metà del volume, che però continua con ulteriori citazioni e riferimenti, spesso incomprensibili: ma tutto espresso con un’enciclopedica varietà di intenzioni per dimostrare la cultura dell’autore.

Della seconda parte bisogna però ricordare almeno Alfredo Jaar, celebre artista cileno che vive a New York. Da un suo manifesto, a quanto pare, Giuli ha tratto il titolo del suo libro e perfino la copertina: col numero del giornale clandestino in Italia (e antifascista), «Giustizia e libertà», che ricordò la morte di Gramsci.

Si tratta, sottolinea l’autore, di una propria «improvvisata ecfrasi». Secondo il vocabolario online della Treccani «ecfrasi» è il «nome che i retori greci davano alla descrizione (…) di luoghi e di opere d’arte fatta con stile virtuosisticamente elaborato». Tanto per osservare la sottigliezza «improvvisata» e modesta di Giuli.

Tra tutte le citazioni e i riferimenti in questo libro colpisce soprattutto ciò che riguarda proprio Gramsci, definito «il fondatore del Pci» (non «uno dei fondatori», come fu; il segretario era Bordiga), «filosofo di Ales» e un «teorico del Partito comunista», mai segretario di partito.

Gramsci viene così un po’ accettato, e, insieme, un po’ respinto, in quanto elaboratore dell’idea di «egemonia» che avrebbe condizionato la storia della sinistra nel dopo guerra (in realtà, del Pci), ma che propugnò anche «un punto di vista ’critico’» – scrisse Gramsci stesso – che oggi invece servirebbe alla destra attuale: quella di cui fa parte appunto Giuli.

Di Gramsci parla parecchie volte e con diverse imprecisioni o addirittura errori: forse casuali, forse no. Per esempio allude ai Quaderni del carcere «arrivati a noi, per quanto fortunosamente».

«Fortunosamente»? È stato dimostrato che furono mandati a Mosca dall’ambasciata sovietica a Roma alla moglie Giulia, e quindi a Togliatti; poi al partito internazionale e nel dopoguerra «girati» a Roma. Di «fortunoso» non ci fu nulla.

Nella stessa pagina, cita le parole dette nel 1928 dal pubblico ministero accusatore di Gramsci, Isgrò: «impedire a quel cervello di funzionare per almeno vent’anni». Giuli deve aver usato una versione della frase che si trova sul web.

In realtà la frase fu scritta sempre da Togliatti nel suo saggio del 1937 (maggio-giugno) su «Stato operaio». E nessuno l’ha mai modificata. Era: «Per venti anni… dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare» (diversa quella riportata da Giuli). In realtà Isgrò aveva chiesto (vedi il Corriere della Sera del 3 giugno 1928) non venti, ma 25 anni e 7 mesi. E sarebbe stato troppo conoscere quell’articolo, che pure si può leggere sull’archivio on-line.

Poi c’è il passo dei Quaderni sulle «ideologie», quello con «un punto di vista ’critico’» che si è citato. Giuli non spiega dove Gramsci lo scrisse: in realtà proviene dal Quaderno 10, lo «speciale» dedicato a Croce.

Il titolo del paragrafo del quaderno è Introduzione allo studio della storia della filosofia, ed è un rifacimento di un paragrafo precedente, scritto qualche giorno prima e risalente sempre al 1932.

La frase di Gramsci sul «punto di vista ’critico’» si riferisce alle ideologie: «Comprendere e valutare realisticamente le posizioni e le ragioni dell’avversario (e talvolta è avversario tutto il pensiero passato) significa appunto essersi liberati dalla prigione delle ideologie, cioè porsi da un punto di vista ’critico’, l’unico fecondo nella ricerca scientifica».

Solo che Gramsci, come spiegano le parole precedenti a quel passo, stava parlando dell’«impostazione dei problemi storico-critici» e di Croce: di quello che aveva pensato il filosofo napoletano e di come lo si sarebbe dovuto affrontare. Non si trattava quindi dell’insistenza di Gramsci (per citare sempre Giuli) «sull’importanza per il Partito comunista di coordinare l’attività per promuovere e ottenere l’egemonia culturale»: con cui qui Gramsci sarebbe in contraddizione.

Davvero si può pensare che Gramsci nel 1932 stesse scrivendo i Quaderni per dare lezioni al futuro Pci?

È impressionante che una casa editrice come Rizzoli pubblichi libri come questo, di nessuna importanza. Forse andava appoggiato un intellettuale sviluppatosi in un movimento di estrema destra come Meridiano zero, e chiamato da Ferrara al Foglio; ma soprattutto, dal novembre 2022 presidente della Fondazione Maxxi e ora nuovo ministro della Cultura.

Ma pure qui c’è qualcosa di strano. Giuli del 2007 riuscì a pubblicare un suo libro da Einaudi/Stile libero, Il passo delle oche, un durissimo attacco a Fini, ai finiani e ai postfiniani.

Tra essi includeva «l’arrembante Giorgia Meloni»; e fin qui passi. Ma aggiungeva: «la ragazza, nel dicembre 2006, ha archiviato malamente una storia piantata alle sue spalle senza che lei se ne sia accorta del tutto: ’Mussolini avrà fatto cose buone, ma il suo sistema autoritario lo condanna, così come per Castro’. Succede sempre così, quando il figlio o la figlia zelota (parole raffinate; ma qui non c’è una sfumatura antisemita?, ndr) di un padre liquidatore (si immagina parlasse di Fini, ndr) si sente tenuto a portare gratitudine».

Chissà se oggi Giuli ripeterebbe una frase del genere. E chissà se Meloni se la rammenta.

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