Visioni

Perché non mi piace il film su Berlinguer

Elio Germano in «Berlinguer. La grande ambizione» di Andrea SegreElio Germano in «Berlinguer. La grande ambizione» di Andrea Segre

Dal Pci a Segre No, non è che il film «La grande ambizione» non mi sia piaciuto, la mia reazione è stata diversa: mi ha addolorato

Pubblicato circa un'ora faEdizione del 7 novembre 2024

No, non è che il film «La grande ambizione» non mi sia piaciuto, la mia reazione è stata diversa: mi ha addolorato. Il film è ben fatto, sia Elio Germano che Andrea Segre sono stati bravi, come del resto sempre sono.

MA CERTO il film bellissimo che Andrea ha girato nella Venezia resa deserta dal Covid, un’atmosfera stravolta rispetto alla sua immagine abituale, è un’altra cosa, in quel film c’è la sua anima, in quello su Berlinguer non può esserci niente.

Per ragioni generazionali Andrea non può aver conosciuto né il Pci né Enrico, e dunque il film deve esser stato scritto e girato riferendo con perizia quanto gli è stato raccontato da chi non voleva esser rimproverato per averlo sciolto e così ha tralasciato tutto quanto di straordinario quel partito è stato – e lo dico sebbene siano noti i dissensi che ho avuto anche con Enrico, che poi, e questo spiega anche molte cose, mi/ci ha chiesto di rientrare. Comunque qui ne parlo per spiegare che quella esperienza è stata una storia centrale della mia vita, e anche drammaticamente vissuta. Il mio modo di guardare il film non può dunque che essere divergente, e così il modo di «sentirlo», non può essere che diversissimo.

CREDO non serva spiegare altro, basta riflettere sul lunghissimo arco di accadimenti, emozioni, dolori, tristezze, arrabbiature verificatesi dal giorno lontanissimo del 1947 quando, io diciottenne, ho parlato per la prima volta con Enrico (fu, ricordo, nella sede del Celio dell’appena ricostituito Fonte della Gioventù e lui mi chiese di spostare una panca). A seguire anni con lui nella Fgci , poi tanti di divergenze dolorose e convergenze felici, in particolare in quegli ultimi anni della sua vita che la pellicola racconta, quando la vicinanza è stata assai stretta, ma anche molto dolorosa per l’incomprensione con cui le sue scelte, anche coraggiosamente autocritiche, erano state accolte dalla maggioranza della leadership del partito di cui pure lui stesso era segretario. Anni di riflessioni preziose e anticipatrici, basti rileggere la sua acuta denuncia della crisi della democrazia che stava travolgendo il paese, e che sarebbe un bene fosse fatta conoscere ai ragazzi cui viene invece presentato uno che la democrazia la invoca come avrebbe potuto fare un esponente del partito liberale.

Non capisco fra l’altro Guido Liguori, dice che il film gli è piaciuto e poi elenca una serie di aspetti della vita di Berlinguer che non gli sembrano colti: sono proprio quelli di cui lui stesso critica il modo come il film li tratta. E allora, perché gli è piaciuto? Più chiaro il giudizio di Nanni Moretti, che va dritto al compromesso storico, che tuttavia, peraltro, è proprio la scelta che neppure io ho condiviso, ma quella che proprio Berlinguer nell’arco di tempo che il film illustra sta faticosamente e dolorosamente lasciandosi dietro le spalle. E lo sta facendo con un’argomentazione ricca di riflessione critica sulle grandi novità che delineano il nuovo tempo in cui stiamo entrando: la crisi della democrazia, innanzitutto, come dicevo, ma anche quella ecologica, di cui comincia a capire gli aspetti, quelli nuovissimi che sono stati portati alla ribalta dalle grandi e assai significative lotte operaie del decennio precedente, proprio quelle che producono il principale dissenso con la maggioranza della leadership del Pci che non nasconde la sua simpatia per Craxi. Mentre proprio ai cogressi del Psi Berlinguer viene ostentatamente e clamorosamente fischiato.

NON c’è una di queste problematiche su cui nel film si dà voce a Berlinguer, solo una piatta esaltazione della democrazia (quale?) su cui fa delle lezioncine a bulgari, sovietici e compagni. È sulla base di queste lezioncine che Berlinguer sarebbe diventato così popolare? Andiamo!, il popolo comunista lo ha amato perché gli ha riconosciuto la forza e il coraggio di provare a conciliare l’orizzonte di una nuova società comunista con le scelte immediate che i lunghi processi di cambiamento oggi impongono a chi non abbia rinunciato a fare la rivoluzione. Rendere centrale l’idea che l’insuccesso sia dipeso dalle operazioni della Cia che hanno fatto ammazzare Moro, ecco, anche questa mi sembra una reinterpretazione della storia che non sta in piedi.

Che il film abbia suscitato tanto entusiasmo fra i compagni mi dà gioia e tristezza: gioia perché le occasioni di letizia per i vecchi comunisti sono ormai tanto rare che l’aver trovato un modo per consolarli va bene. Ma altrettanta amarezza nel credere che sia possibile far tornare ai giovani la voglia di cambiare il mondo coi santini. Anche a me, certo, commuove vedere quelle piazze colme di gente. E capisco anche che un film non è un libro di storia. Ma non posso fare a meno di pensare che non dovrebbe neppure renderne più difficile la sua comprensione. Sono solo molto contenta di aver accettato, dopo anni di rinnovata amicizia, l’invito che Enrico rivolse al nostro partitino, il Pdup, a rientrare nel Pci per contribuire a cambiarlo. Fu qualche mese prima della sua fatale scomparsa.

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