Oltre la nostalgia, Berlinguer e il senso del dibattito
Cinema Il film porta a riflettere sul modo di fare politica dei comunisti, sul loro atteggiamento di fondo, su un protagonismo anche dei massimi dirigenti sorretto da ideali e non da interessi personali
Cinema Il film porta a riflettere sul modo di fare politica dei comunisti, sul loro atteggiamento di fondo, su un protagonismo anche dei massimi dirigenti sorretto da ideali e non da interessi personali
Berlinguer. La grande ambizione è stato accolto da critica e pubblico in modo favorevole: lo merita. È un film ben fatto, per la riuscita amalgama di fiction e immagini d’archivio, per l’intreccio di vita pubblica e vita privata, per gli attori dalla recitazione misurata (vi è sempre un rischio Bagaglino in questo genere di film). Per la magnifica interpretazione di Elio Germano, per la sceneggiatura (con Marco Pettenello) e per la regia di Andrea Segre. Il film ha innescato tra spettatrici e spettatori anche un dibattito, sui social e non solo. È un merito indubbio del film, questa voglia di discuterlo: la commozione a tratti prende, ma non travolge, e permette dunque di restare lucidi e ragionare. Si viene sollecitati a pensare, a riflettere su Enrico Berlinguer e sulla politica dei comunisti italiani.
Il film piace anche perché usa un registro diverso da quello usato da Veltroni dieci anni orsono nel suo Quando c’era Berlinguer. Lì si puntava sull’emozione ed Enrico era quasi solo «una brava persona», restando troppo sullo sfondo i suoi ideali e i suoi valori socialisti, la sua volontà di superamento della società capitalistica, che fu tante volte proclamata e ribadita, fino agli ultimi anni.
Il film di Segre, dal punto di vista storiografico e della capacità di restituire il personaggio, mi pare invece inoppugnabile: rende la complessità della situazione, le indecisioni di una azione politica intelligente, la congiuntura internazionale in cui Berlinguer si trovava a essere protagonista inviso tanto a Est quanto a Ovest (non a caso il film inizia col golpe cileno e con l’attentato di Sofia).
Soprattutto il film porta a riflettere sul modo di fare politica dei comunisti, sul loro atteggiamento di fondo, su un protagonismo anche dei massimi dirigenti sorretto da ideali e non da interessi personali, espressione di un noi collettivo e non di una ipertrofia dell’io. La storia del Pci di Berlinguer è ancora oggi oggetto di scherno da parte delle piccole minoranze critiche di allora e dei loro discendenti culturali e politici. Il film di Segre alcune cose in merito le rimette a posto, dà una immagine esatta delle idealità, dei sacrifici, del modo di essere comunisti di uomini e donne di allora (non solo dei «capi» ma anche dei semplici militanti), dello spessore etico-politico di Berlinguer e dei suoi compagni.
Quello che trovo meno condivisibile, invece, è aver fermato la narrazione al 1978. È vero che un film non può rispecchiare tutta la realtà, ma la scelta su quale realtà soffermarsi non è senza significato. Perché vi è stato, dopo il 1978, un Berlinguer che ha saputo fare autocritica sulla «solidarietà nazionale» e aprire una nuova stagione di dialogo coi movimenti: operaio, delle donne, della pace, ecologista, ecc. È a mio avviso il Berlinguer più interessante (come cercai di mostrare nel mio libro Berlinguer rivoluzionario).
Sul «compromesso storico» mi restano dei dubbi: ne capisco le motivazioni (la situazione internazionale) e le buone intenzioni. Ma continua a sembrarmi una strategia destinata a perdere: la sua sconfitta non fu dovuta solo all’assassinio di Moro, perché la Dc era in realtà molto poco morotea, come si vide presto con il cosiddetto «preambolo» anticomunista. E anche Moro non era un alleato di Berlinguer, ma un intelligentissimo e sensibile rappresentante della parte politica opposta, che cercava di evitarne il tracollo (e il cambiamento nel paese). Manca inoltre nel film – forse unico vero neo – un qualsiasi riferimento al ruolo nefasto di Craxi, che segnò gli anni dal 1976 al 1978 (e oltre).
Il film ci dice che rimane ben presente il ricordo di Berlinguer e la sua volontà di rinnovamento profondo (anche se graduale, perché realistico), unitamente a un esempio etico con pochi eguali. Aspirazioni e modi di fare politica che il segretario comunista seppe incarnare e che oggi appaiono sconfitti, ma non del tutto dimenticati. Che destano anzi rimpianto. Serva anche questo dibattito collettivo e questa emozione condivisa a testimoniarne il bisogno diffuso.
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