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Il Pci su Togliatti: mediocre politica, pessima storia

Il Pci su Togliatti: mediocre politica, pessima storia

Dall'archivio In occasione del sessantesimo anniversario della morte di Palmiro Togliatti, ripubblichiamo l'editoriale di Rossana Rossanda apparso sul manifesto del 23 agosto 1989

Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 20 agosto 2024

C’è un destino degli articoli che vanno in modo futile alla storia: che essi innescano polemiche ancora più basse. Il «rigetto» di Togliatti operato da Biagio De Giovanni nel venticinquesimo anniversario della morte sull’Unità di domenica ha avuto una eco cui manca perfino l’assai esile spessore storico che egli vi aveva introdotto. Valga per tutti l’insolitamente volgare scritto di Gianni Baget Bozzo sull’Avanti. Eravamo, anzi Togliatti era uno stalinista rozzo fino al 1945, ammette De Giovanni. La vostra base sono e saranno i trinariciuti di sempre, replica nello stile che fu del Bertoldo, Baget Bozzo.

A questo livello è il dibattito sul socialismo reale e il movimento comunista nell’Italia del 1989: De Giovanni, che è persona fine, farebbe bene a riflettervi. Quando si ha alle spalle una storia di settant’anni che, attraverso l’Ottobre, la Terza internazionale e la seconda guerra mondiale ha cambiato la scena del mondo, passare dal silenzio più cieco alla più tota- le demolizione, significa fare non storia, ma esorcismo. Essere insieme reticenti e strumentali.

Reticenti, perché se si vuoi andare a una critica radicale del marxismo come strumento ancora utile – ad aggiorna- Rossana Rossanda meriti fatti – di analisi della società capitalistica e come credibile ipotesi di trasformazione, va fatto senza perifrasi: scrivere di «una coltissima utopia», un «un complesso di fini che erano poi quelli della giustizia e dell’uguaglianza, della fine della divisione in classi delle società, dell’emancipazione umana al di là di quella politica» come se si trattasse della singolare formazione d’un uomo, Togliatti, e non del complesso di idee che dettero vita ai partiti socialisti e poi comunisti, è farsi gioco della verità. Se di questo patrimonio occorre liberarsi in nome di «nuovi ideali di tolleranza, democrazia e pace», non si riduca quel che è stato lo scontro del secolo alla «duplicità» della cultura d’un uomo, «nel fango» prima del 1945 e quando mirava l’Urss, e folgorato dalla grazia quando guardò all’Italia.

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Strumentale, perché con il sacrificio rituale del capo, si liquida sia l’analisi del socialismo reale (di «comunismo reale» non parlava nemmeno Breznev) sia la propria storia.

La prima non è mai stata fatta: non c’è documento del Pci che sia andato dopo il 1964 oltre le note, preparate – guarda un po’ – da Togliatti per Krusciov, nel testo che va sotto il nome di Memoriale di Yalta.

Anzi, Longo e Berlinguer lavorarono a ricucire lo «strappo» argomentato che Togliatti aveva fatto nell’aprile precedente, rifiutando di partecipare alla conferenza dei partiti comunisti proposta dal Pcus, salvo che non fossero state esperite discussioni, incontri e procedure che mettevano in causa esplicitamente il diritto unilaterale dell’Urss di procedere. E quando, cinque anni più tardi, Breznev invase la Cecoslovacchia, il Cc lo definì un grave errore che però non implicava un giudizio di fondo sul sistema, come sostennero solo, fortemente redarguiti, quelli che sarebbero stati il manifesto. Del resto, poche settimane dopo il Pci approvò l’accordo fra Urss e Cecoslovacchia firmato da Svoboda, in presenza d’un Dubeck che gli era stato portato davanti in manette. Ancora sei mesi e Berlinguer rilegittimava la conferenza internazionale, anche se andava a ripetervi la condanna del fatale errore. Infine, a un
anno di distanza, quando scrivemmo «Praga è sola», fummo radiati e si bloccò per un pezzo il dibattito nel partito.

Non ricordo la nostra vicenda per risentimento: come abbiamo avuto occasione di scrivere, consideriamo una sorte fortunata che il Pci ci abbia allora liberati di sé. Questo fa di noi gente che può guardare, senza stracciarsi le vesti, al passato e al presente.

Lo ricordo perché chi ci cacciò non fu Togliatti – né il Pci del 1969 era una fortezza assediata: aveva gestito più intelligentemente di altri il 1968, aveva avuto un grande successo elettorale e aumentava gli iscritti, tra questi un’ala significativa di Potop, che faceva capo a Massimo Cacciari.

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II Pci non si trovava di fronte ai dilemmi che nel corso della guerra di Spagna e alla vigilia della prima guerra mondiale fecero tacere e attendere e perfino accettare la morte a molti compagni di grande statura, né a quelli della guerra fredda e dello scontro politico asperrimo che ne seguì. E perché tra coloro che più ci com- batterono furono Amendola e Terracini?

Bisogna pure interrogarsi su quale cemento, su quale bisogno, non solo su quale «fango» tenesse assieme legate e lontane dal problema dell’Urss e fedeli a un certo modello di partito quelle civilissime persone: Amendola utopista? Terracini un burocrate? Non scherziamo. E poi non finisce qui: nel 1979 Togliatti era morto da quindici anni, ma il Pci rifiutava di mandare una delegazione al nostro Convegno sui paesi dell’Est: Chiaromonte ci incontrò fuori da Botteghe Oscure e vennero Rosario Villari incaricato ad personam, e Bruno Trentin perché era un uomo libero. Vittorio Foa, che è un sincero democratico, formalo in «Giustizia e libertà», mai comunista, telegrafò furibondo: pensassimo all’Italia, invece di occuparci del socialismo.

Già leggendo lo scorso anno l’articolo di Giorgio Napolitano, trovammo senza decenza scaricare su Togliatti (tutti gli altri plagiati?) una storia drammatica con la quale non si osava fare i conti: nel 1948 l’adesione a quel che avveniva nelle democrazie popolari, poi la condanna di Tito, nel 1956 la condanna della rivolta di Budapest. E trovammo strano che non si ricordasse che nel 1951 Togliatti disse no a Stalin, mentre l’intera direzione del Pci gli diceva di sì sul Cominform: in quell’anno era stato impiccato Slansky con altre quattordici persone.

Adesso Biagio De Giovanni va oltre, rimproverando a Togliatti di aver «cercato» fanaticamente il rapporto con l’Urss, «contro» Gramsci che avrebbe voluto la rottura fin dal 1926: ma Gramsci nel 1923 scriveva che altro non restava che l’Urss, dopo il fallimento delle rivoluzioni in Europa e nel 1926 non preconizzò una rottura, criticò Stalin in nome dell’unità. E nulla ci consente di attribuirgli, sul socialismo reale, fin dagli anni ’30, idee che forse in carcere non ebbe neppure modo di farsi.

Perché metto alcuni, solo alcuni, punti sulle i? Perché non ha dignità né storica né morale evacuare la domanda sul perché anche gli attuali dirigenti comunisti, salvo i giovanissimi, furono partecipi d’una certa scelta e ideologia. O chiederselo significa fare, come De Giovanni sostiene, del giustificazionismo? È bieco storicismo chiedersi per quale idea della storia, e della congiuntura, e delle forze d’un partito che si voleva organizzazione di lotta, coltivavamo alcuni temibili principi? E da dove veniva quel bisogno di essere «altri» dal presente anche a costo di rompercisi sopra faccia e mani? È superfluo dire che, senza il Togliatti sopravvissuto ed esperto dagli anni ’30 non avremmo avuto quel partito comunista assieme fedele e infedele, aperto al di fuori e chiuso al di dentro, che pubblicava Gramsci e il trattello di Voltaire sulla tolleranza e però anche Zdanov – che rifiutava di dire che fra l’Urss e gli Stati Uniti nel dopoguerra bisognava schierarsi con questi ultimi? Contro l’Urss, contro la Cina, contro quel som- movimento mondiale? Dovevamo diventare saragatiani?

Perché no, se oggi si rifiuta con imbarazzo la complessità di quella formazione fuori dall’ordinario che fu il Partito comunista italiano, con gli argomenti che nel 1948 erano di Saragat? Interrogato da Paolo Mieli, De Giovanni non vuoi dare ragione ai socialisti: ma perché? Che cosa c’era di diverso nel dibattito su Mondo Operaio del 1976?

Fare tutto intero il discorso, capire la trama e il disegno di quegli anni sarebbe cosa seria, rispettosa dei morti e dei vivi. Non farlo non solo è anti-storico, è trasformistico: o si sta acriticamente con Mosca o la si getta «nel fango». Stalinisti o liberaldemcoratici, tertium non datur. L’avevamo già sentita, questa canzone vecchia di mozzo secolo: da Biagio Do Giovanni aspettavamo dell’altro.

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