«Bisogna attendere che il puzzle si completi – spiega Dmitry incrociando le dita con i palmi delle mani bene aperti – per avere tutti i pezzi al proprio posto e capire cosa faranno i russi».

Dmitry ha trent’anni, è nei reparti speciali della polizia ucraina da quando ne aveva diciotto e dall’inizio della guerra è impegnato nella difesa di Kharkiv, la sua città natale. Sua madre e sua nonna sono a Kiev, così come la sua ex moglie e sua figlia piccola.

PASSANDO TRA LE STRADE del quartiere Saltivka ci indica il suo palazzo: «Guarda quelli intorno, sono tutti neri, vedi? Il mio non l’hanno colpito, però ogni volta che ho il turno di riposo e dormo a casa penso che potrebbe essere l’ultima notte della mia vita».

«Ma allora perché ci torni?», chiediamo. «Se devo morire, voglio morire nella casa di mia nonna, è lì che sono cresciuto, il mio migliore amico abita al secondo piano, lo conosco da quando ho 4 anni, non voglio andarmene».

Dmitry racconta che ogni volta che trascorre la notte a casa esce fuori al balcone a fumare e ascolta i boati: «Se lo senti nello stomaco è lo spostamento d’aria, vuol dire che è uno dei nostri, altrimenti non senti niente, al massimo il fischio». «Quando senti i boati cosa fai?». «E cosa vuoi fare? Aspetti. Io abito al 12° piano, potrei non farcela in tempo ad arrivare a terra e rimanere sepolto nella rampa delle scale».

GLI RACCONTIAMO della volta che ci siamo trovati più vicino a un bombardamento e della bolgia di sensazioni mescolate alla paura provate. Funziona. Dmitry cambia tono: «È normale, cosa pensi, che io non abbia paura? L’ultima volta mi sono messo in piedi di fianco alla colonna delle scale e ho aspettato, poteva colpire il mio quartiere o un altro, il mio palazzo o quello accanto, è la roulette russa, non puoi farci niente».

Si interrompe perché squilla il telefono, è sua madre da Kiev che gli chiede come stia. Lui ci tiene a mostrarci, chiede di parlare in italiano, che «a mamma piace tanto». La signora ne è effettivamente felice e risponde con qualche parola in italiano, un po’ imbarazzata.

Poi rimprovera qualcosa a Dmitry e lui conclude la telefonata con un «ok mamma», obbediente. «È la sua macchina – spiega Dmitry ridendo – Mi chiede sempre di guidare piano e di non rovinargliela, se sapesse cosa ci faccio», e ride di nuovo, con una risatina acuta che scopre l’apparecchio e stona con l’aspetto da duro e il corpo muscoloso.

«CREDI CHE I RUSSI proveranno a entrare a Kharkiv?», gli chiediamo dopo un po’. «Sono già entrati, il secondo giorno di guerra, non hanno sparato un colpo e se ne sono andati, erano solo pochi mezzi. I bombardamenti sono iniziati dopo».
«E perché?».

«Non so, forse avevano l’ordine di non mostrarsi ostili, forse Putin credeva veramente che qui ci saremmo rivoltati per chiedere l’annessione alla Russia, che non aspettassimo altro». «Non hai parenti in Russia anche tu?». «Certo, qui tutti abbiamo parenti in Russia». «E cosa dicono della guerra?». «Sono zombie, gli fanno il lavaggio del cervello, è inutile parlarci».