Retrovia sin dai primi giorni, la Moldavia torna al centro degli eventi della guerra russo-ucraina. Nel suo viaggio europeo, Joe Biden ha ribadito come gli Usa e l’«Occidente» tutto sosterranno l’integrità territoriale della Moldavia, la piccola nazione cerniera fra gli estremi Balcani e l’Ucraina. Dal 1992, la striscia di territori che per 405 km marca il confine fra i due paesi, la regione della Transnistria, si è sottratta al controllo di Chisinau ed è vissuta come repubblica separatista grazie al supporto della Russia, che vi ha mantenuto le vecchie basi della 14ma Armata sovietica quali «forze di peacekeeping», oggi forti di 1000 uomini.

Tuttavia, Mosca aveva finora riconosciuto la sovranità della Moldavia su questi territori. Ora nel suo pericoloso annuncio di ieri Putin ha capovolto la posizione revocando il Decreto (che è del 7 maggio 2012 n. 605) che impegnava la Russia a «trovare una soluzione al conflitto transnistriano che rispetti l’integrità territoriale e la neutralità della Repubblica di Moldavia istituendo uno status speciale per la Transnistria».

In seguito alla rischiosa dichiarazione, le forze armate di Kiev hanno accresciuto la loro presenza ai confini meridionali della Transnistria. L’ area si trova a ridosso del principale porto ucraino, Odessa, che resta fra gli obbiettivi di Mosca in caso le sue forze riuscissero a capovolgere l’esito della guerra in Donbass.

Per entrambe le parti in conflitto, la posizione della Moldavia riveste dunque un’alta importanza strategica. Al pari di quella ucraina di prima del 24 febbraio, la società moldava è profondamente divisa fra i sostenitori dell’integrazione europea e quelli della reintegrazione nel paese in un’unione a guida russa. Tali orientamenti si sono alternati al vertice istituzionale del paese, ora presieduto dall’ex-funzionaria del Fmi Maia Sandu la quale, sin dalle prime settimane dell’attacco russo in Ucraina, è riuscita ad agganciare la corsia preferenziale per l’accesso all’Ue, ottenendo lo status di candidato ufficiale nel giugno 2022.

Il problema per Sandu è quello di mantenere il controllo su un paese già dilapidato dalle politiche neoliberali e poi investito dagli effetti della guerra vicina, in primo luogo dall’afflusso dei profughi, più di 700.000. Di fronte alle proteste, Sandu e l’Ue denunciano sabotaggi russi (leader delle agitazioni è il Partito Shor, emanazione di Ilan Shor, oligarca moldavo attualmente in esilio in Israele), ma la protesta ha forti caratteristiche interne, prodotto dall’aumento del costo della vita, in particolare di quelli dell’energia, per cui la Moldavia, paese più povero del continente europeo, è completamente dipendente dalle forniture russe. Due settimane fa i governi di Kiev e Chisinau avevano accusato un sorvolo del territorio moldavo e rumeno da parte di un missile russo, ma gli Usa e Bucarest hanno smentito.

Nella sua successiva visita a Bruxelles, Vladimir Zelensky ha denunciato un piano russo per destabilizzare la Moldova. Nello stesso giorno Sandu ha annunciato le dimissioni del proprio primo ministro, Natalia Gavrilita, sostituita con un personaggio considerato espressioni di posizioni ancora più filo-occidentali, Dorin Recean, già consigliere presidenziale per la sicurezza. Impotente di fronte ai problemi reali del paese, sotto pressione da parte occidentale, il nuovo premier ha posto l’accento sul problema della Transnistria e sulla «necessità che le forze russe abbandonino la regione».

Per forzare la situazione con i separatisti Chisinau non ha bisogno di ricorrere alla forza. Prima della guerra, oltre che sul contrabbando, l’entità separatista ha prosperato esportando le proprie produzioni sovvenzionate dal gas russo in direzione dell’Ue. Recean punta dunque a costringere le imprese locali a scegliere tra la Russia, con la quale i legami economici diminuiscono, ed il futuro occidentale rappresentato dal proprio governo.

La ripresa del controllo della regione, oltre che fatto strategico come fianco finora scoperto dell’Ucraina, sarebbe in questo momento molto importante per la Nato. Le forze russe presidiano infatti enormi depositi di armi e munizioni «made in Urss» che, nonostante l’età, potrebbero ancora essere riciclati per rifornire le forze ucraine, che, come più volte sottolineato dai portavoce atlantici, stanno esaurendo le scorte loro fornite. Va da sé che un tale scenario costituirebbe un’ulteriore e pericolosa escalation, un allargamento del fronte di guerra che rafforzerebbe le forze più estremiste del campo russo accellerando il conto alla rovescia verso un confronto militare sempre più diretto- con sullo sfondo la minaccia nucleare.