Dopo 148 giorni di guerra, le proteste di ieri sera in Israele hanno offerto un quadro che rispecchia tanto le tensioni interne, quanto i paradossi della società ebraica.

Da una parte prosegue il dramma delle famiglie degli ostaggi che nel pomeriggio hanno fatto ingresso a Gerusalemme con migliaia di sostenitori al termine di una nuova disperata marcia di protesta di quattro giorni partita dal sud.

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La marcia, come sempre commovente per l’affluenza di pubblico, si è conclusa accanto alla residenza ufficiale di Netanyahu invocando il riscatto degli ostaggi e il raggiungimento di un accordo su cui Hamas dovrebbe pronunciarsi oggi a pochi giorni dall’inizio del Ramadan.

SOSTEGNO alle famiglie anche nel piazzale del Museo di Tel Aviv, mentre a Kaplan, la via parallela, sono tornati agguerriti gli oppositori del governo che chiedono a gran voce un nuovo esecutivo.

Dopo gli sgradevoli incidenti della settimana precedente, causati dall’uso eccessivo di mezzi di coercizione da parte delle forze dell’ordine contro i manifestanti, questa settimana la polizia ha deciso di mettere le mani avanti limitando il perimetro delle proteste con lo schieramento di transenne, automobili e personale per impedire l’accesso all’autostrada.

Alcuni manifestanti sono stati arrestati. Contro il governo sono state indette proteste anche a Haifa, Beer Sheva, Cesarea, Raaana, Rehovot, Karkur e in altre località del paese.

Sullo sfondo una settimana intensa segnata dalla vittoria dei partiti ultra-ortodossi e degli estremisti religiosi che hanno riconquistato i seggi di Gerusalemme alle elezioni amministrative di martedì. Significativa anche l’inaspettata dichiarazione del ministro della difesa Gallant di voler subordinare la proposta di approvazione al parlamento della legge sull’arruolamento obbligatorio al consenso di tutti i partiti della coalizione.

L’affermazione, che mette a serio rischio l’esenzione di cui hanno goduto finora gli ultra-ortodossi studiosi delle scuole talmudiche, ha spiazzato Netanyahu turbando i delicati equilibri che lo mantengono al potere.

DEGLI SCORSI giorni anche le pesanti uscite dell’ex primo ministro Ehud Olmert che ha puntato diverse volte il dito contro Netanyhau e il suo governo, accusandoli di aver operato con eccesso di sicurezza e arroganza, di voler proseguire la guerra a tutti i costi sacrificando gli ostaggi e di cercare volutamente di estendere il conflitto all’intera regione per riappropriarsi della Cisgiordania.

Se alle manifestazioni in solidarietà alle famiglie si uniscono israeliani di diverso orientamento politico, uniti dall’indignazione per l’abbandono degli ostaggi da parte del gabinetto di guerra che continua a metterne a repentaglio le sorti, per non dire sacrificarle, ignorando le suppliche dei parenti e dei cittadini in generale, alle proteste contro il governo si concentrano per lo più ebrei di centro-sinistra.

Sebbene moltissimi cittadini israeliani siano chiaramente furibondi contro Netanyahu e ne sognino solo le dimissioni, gli oratori si rapportano sempre ai massacri del 7 ottobre come se il tempo si fosse fermato. La centralità dell’esercito nella società non sembra messa in discussione neppure di fronte alla tragedia consumatasi a Gaza lo scorso giovedì.

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Mentre il mondo intero guarda esterrefatto e preoccupato per le sorti dei civili palestinesi, gli israeliani delle proteste si appellano alla versione dell’incidente, sollevano dubbi su quella di Hamas, ma soprattutto continuano a pretendere una sorta di simmetria tra le parti, incuranti dell’imbarazzante disparità dei numeri delle vittime.

PER SENTIRE altre narrazioni che comprendano accordi di pace, cessazione della spirale di violenza e empatia ai civili di Gaza bisogna cambiare piazza e unirsi alle manifestazioni di gruppi come Standing Together,dove tuttavia lo scorso giovedì a Tel- Aviv l’affluenza è stata relativamente scarsa.

Scarsa nonostante cinque mesi di guerra, morti, ostaggi, soldati che tornano dal fronte con gli arti amputati e sintomi post-traumatici tali per cui l’ospedale Tel-Hashomer ha dovuto aprire un nuovo apposito centro di salute mentale, nonostante gli attentati e la minaccia angosciosa di una guerra con il Libano, nonostante disapprovazione internazionale e ripercussioni economiche.