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Shilpa Gupta, lo stesso cielo

Shilpa Gupta, lo stesso cieloAllestimento della mostra al centro Botin e un ritratto di Shikpa Gupta (foto di Manuela De Leonardis)

Mostra Al Centro Botín, progettato da Renzo Piano sul lungomare di Santander, una esposizione dedicata all'artista indiana

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 22 giugno 2024
Manuela De LeonardisSANTANDER (SPAGNA)

Il Mar Cantabrico è una linea dritta al di là delle vetrate del Centro Botín, progettato da Renzo Piano sul lungomare di Santander e aperto al pubblico nel 2017: intensa la vivacità quotidiana che lo circonda – anche in una giornata infrasettimanale di primavera annunciata – con i ragazzini che si rincorrono dopo la scuola, i pescatori con la canna da pesca, persone che vanno in bicicletta, in monopattino, fanno jogging e passeggiano mano nella mano o con il cane.

Al suo interno, al secondo piano, è ospitata la mostra Shilpa Gupta. I Live Under Your Sky Too (fino all’8 settembre) – la prima in Spagna dell’artista indiana – curata da Bárbara Rodríguez Muñoz, direttrice delle mostre e della collezione del Centro Botín. Un progetto che si collega con il laboratorio indirizzato a artisti, curatori e mediatori culturali The Ground Slips Between Us che Shilpa Gupta (Mumbai 1976, vive e lavora a Mumbai) ha condotto nell’ambito delle attività culturali organizzate dalla Fundación Botín, analizzando insieme alla curatrice argentina Renata Cervetto le strategie di «resilienza creativa» come sfida alla censura e alla repressione.

Decostruire i luoghi comuni dell’ideologia e della politica in contesti geografici in cui confini e barriere sono tanto tangibili quanto immateriali, ma anche nel pensiero stesso e nella sfera emotiva dell’individuo che si trova spesso a negoziare tra sé e sé il significato della parola libertà, è una pratica che caratterizza tutto il lavoro di Gupta. «Sono sempre interessata a ciò che vediamo con la costante insinuazione del dubbio», afferma l’artista che parteciperà prossimamente anche alla collettiva Daring to Dream in a World of Constant Fear, organizzata dalla Victor Pinchuk Foundation a Palazzo Contarini Polignac tra gli eventi collaterali della 60.

Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia. A Santander ha realizzato l’opera che dà il titolo alla mostra «ricamando» con la luce intermittente a LED la frase «I Live Under Your Sky Too» (anche io vivo sotto il tuo cielo) in inglese, spagnolo e urdu: un messaggio chiaro di possibile reciprocità e solidarietà in cui la luce è l’energia che stimola uno sguardo più attento verso gli altri. «L’arte di Shilpa Gupta è un esercizio su come possiamo ridistribuire il nostro potere immaginativo per oltrepassare i confini, negare i censori e aprirci agli altri», scrive l’accademico indiano Pratap Bhanu Mehta nel catalogo (coedizione Fundación Botín/La Fábrica) che raccoglie i testi della curatrice, dello storico Rattanamol Johal e dell’artista e poeta María Salgado.

Con coerenza estrema, senza retorica, Gupta forza l’immaginazione creando «interferenze» che conducono l’osservatore in una dimensione inaspettata, attraverso l’uso della parola, del suono, del movimento, della luce. L’urgenza di «dare visibilità alle persone e alle comunità oppresse, marginalizzate o in prigione» – come spiega Bárbara Rodríguez Muñoz – è stata la linea guida nella selezione di una ventina di opere, nei due anni trascorsi per l’organizzazione di quest’esposizione.

La provocazione può essere giocosa con i coloratissimi blocchetti di legno di Untitled (Flags of the World) e nelle stelle ricamate che si sovrappongono creando una nuova texture simbolica di Stars on Flags of the World, July 2 011, oppure poetica con la fragile torre di punte di matite rotte di Untitled (Tower of broken pencil points) che rimanda all’immortalità delle parole dei poeti, proprio come in Untitled (A spoken poem in a bottle) le poesie sussurrate sono conservate dall’artista nelle bottigliette dei laboratori chimici o farmaceutici.

«Si può portare via un corpo, ma non un ricordo o i nostri stessi sogni», afferma Shilpa Gupta. Le voci dei poeti perseguitati, incarcerati o assassinati in ogni parte del mondo si rafforzano diventando una sorta di coro polifonico nell’opera Untitled in cui il tratto a matita delinea le singole figure o situazioni in cui ognuno di loro è protagonista, accanto alle loro stesse parole. «Non c’è segreto altro che la poesia», scrive il poeta e attivista indiano Varavara Rao considerato il più grande autore in lingua Telugu dei nostri tempi, arrestato nel 2018 con l’accusa di «incitamento alla violenza di casta» e rilasciato nel 2022 in uno stato di salute precaria.

La percezione del tempo e dello spazio è in continua negoziazione: un frammento temporale può diventare un macigno come in Visiting Hours, quando si riferisce alla necessità di concentrare le tante parole da dirsi durante l’orario di visita dei detenuti, come in 100 Hand Drawn Maps of Spain (parte del progetto 100 Hand Drawn Maps of My Country iniziato nel 2007) un ventilatore muove continuamente le pagine di un libro in cui sono stati invitati cittadini di Santander, Barcellona e San Sebastián a disegnare a memoria la carta geografica della Spagna, tracciando così un’ipotesi di memoria collettiva in cui l’idea dei confini assume una valenza del tutto personale. «Mi interessa il fatto che ci si aggrappi ad una memoria che è molto soggettiva. Una memoria che cambia in base a chi la deve difendere, a chi ha il potere di pubblicare certe immagini o cancellarle, alla relazione con il luogo stesso».

Ancora parole, quelle che creano una fitta rete di resistenza e opposizione alla violenza e all’arroganza del potere viaggiando da un continente all’altro, da un’epoca all’altra: le parole di otto canzoni di protesta, diventate un simbolo di affermazione dei diritti umani, che l’artista ha adottato nella grande installazione visiva e sonora Listening Air, prodotta dalla Fundación e Botín con neugerriemschneider, la galleria di Berlino che insieme a Continua rappresenta Shilpa Gupta.

Nell’ambiente centrale della mostra, i microfoni e le lampadine si muovono lentamente nella semioscurità «spostando» le voci che intonano canzoni popolari di protesta come Hum Dekhenge, scritta in urdu dal poeta pakistano Faiz Ahmad Faiz e cantata dagli studenti nei campus universitari indiani o l’inno pacifista We Shall Overcome nata come gospel all’inizio del XX secolo e migrata nel 1989 anche a piazza Tienanmen.

Gli schiavi africani cantavano nelle piantagioni del sud degli Stati Uniti (il primo libro che raccoglie le loro canzoni, Slave Songs of the United States, è stato pubblicato nel 1867 da William Francis Allen) così come le mondine nelle risaie del vercellese intonavano Bella Ciao, assurta a simbolo della Resistenza italiana contro il nazifascismo e inno di protesta anche nel 2020, quando a cantarla nella loro lingua erano i contadini durante le manifestazioni e i sit-in a New Delhi. In questa narrativa della resilienza l’elemento testuale fornisce uno strumento in più per contrastare il buio, aggirando quelle barriere che ostacolano il movimento nella sua espressione di libertà fisica e mentale.

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