Per entrare a Severodonetsk bisogna percorrere circa cento chilometri attraverso la campagna, viaggiando a tutta la velocità e facendo lo slalom tra mezzi distrutti, buche e crateri. L’autostrada che collegava la città col Donbass occidentale è stata presa dai russi.

La notizia ha iniziato a filtrare due giorni fa, ma la conferma ufficiale è arrivata solo ieri: le truppe di Putin sono a pochi chilometri dal villaggio di Soledar e più a est, all’altezza di Naghirne, avrebbero già preso il controllo dell’arteria viaria.

IN SOSTANZA la situazione è questa: Severodonetsk – 100mila abitanti, capitale dell’oblast di Lugansk, «la nuova Mariupol», come viene soprannominata – è oggi cinta d’assedio su tre lati. A nord e a sud i russi sono alle porte; a est hanno già messo piede in città e stanno ingaggiando una furiosa battaglia casa per casa.

L’unico ponte d’accesso rimasto intatto si trova a nord-ovest, proprio di fronte alle posizioni degli assedianti. Bisogna percorrerlo a tutto gas, sperando che gli artiglieri e i cecchini si astengano dall’aprire il fuoco sui mezzi civili – il che peraltro non sempre avviene. Siamo riusciti a entrare a Severodonetsk ieri pomeriggio, accordandoci a un convoglio umanitario per l’evacuazione dei civili.

Non è stato un viaggio facile. «Go fast», ci hanno raccomandato ai posti di blocco. Dopo aver bloccato l’autostrada, i russi stanno ora insidiando anche le arterie secondarie – le uniche ancora transitabili. Il percorso che abbiamo scelto si snoda poco più a nord del fronte di battaglia, la cui esatta collocazione è però tutt’altro che certa.

«PICCOLE PATTUGLIE nemiche potrebbero già trovarsi alle nostre spalle», ci rivela in ufficiale ucraino sporgendosi dalla torretta di un tank.

Gli operatori umanitari, che sono in contatto diretto con il comando militare della regione, sono però di un altro avviso: un’auto è appena entrata in città percorrendo lo stesso itinerario che stiamo per seguire – ci rassicurano – dunque la cosa è fattibile. Alla nostra destra si levano costantemente alte colonne di fumo: eccolo, il fronte dell’autostrada. Da Popasne le colonne moscovite stanno venendo avanti, decise a tagliare la via ai rifornimenti ucraini.

Una mossa che potrebbe implicare la perdita non solo di Severodonetsk e della vicina Lyshichansk, ma di tutto il Donbass orientale. La lotta infuria senza sosta, ma finché questi viottoli di campagna resteranno percorribili la città potrà continuare a respirare.

ATTRAVERSIAMO villaggi anonimi, di contadini e minatori. Al posto dei trattori oggi ci sono però i carri armati. Arrivati a Lyshichansk, dieci chilometri a ovest di Severodonetsk, sentiamo sibilare alcuni colpi di kalashnikov.

I russi sono veramente arrivati fin qui? Ci sono franchi tiratori appostati sui tetti? E, se sì, a quale esercito appartengono? Non lo sapremo mai, né ci interessa scoprirlo. L’unico comandamento, qui, è correre senza fermarsi. Viaggiamo a 120, 150 all’ora.

Le strade di Severodonetsk ci sfilano accanto come una visione da incubo. Carcasse di auto bruciate, pali della luce divelti, code di Grad che spuntano minacciose dall’asfalto. Oltre il 70% degli edifici è stato danneggiato dalle bombe. Tre giorni fa, mentre percorrevano questi stessi vialoni, un proiettile d’artiglieria è scoppiato a meno di cento metri da noi.

Ci hanno dato un consiglio: evitare a tutti i costi le arterie rivolte verso nord, perché sono spazzate costantemente dal fuoco degli assedianti. La nostra destinazione è il magazzino dove vengono stoccati gli aiuti umanitari. Qui, da settimane, un meraviglioso drappello di volontari si spacca la schiena per consegnare ai civili qualche cassa d’acqua, un sacco di patate, del cibo in scatola.

Ma non è solo questione di fatica: restare a Severodonetsk, oggi, significa rischiare la vita ogni giorno. Solo ieri sei civili sono stati uccisi da un bombardamento. L’altro giorno ne sono morti dodici, e sono solo quelli di cui si è potuto tenere il conto.

«In città vivono oggi circa 15mila persone – racconta Misha, uno dei volontari -. È gente povera, che non saprebbe dove andare e non vuole lasciare le proprie case. E poi, c’è pure chi aspetta con gioia l’arrivo dei russi». Li abbiamo visti, i civili di Severodonetsk.

MOLTI VIVONO nei vecchi bunker dell’epoca sovietica, senza più luce né acqua – tutti gli altri nelle cantine e nei sotterranei. I più non vogliono essere avvicinati dai giornalisti, che ai loro occhi sono potenziali bersagli per sniper e artiglieri. Verità o paranoie? Anche questo resterà un mistero – ma quello che è certo è che in guerra nessuno può mai dirsi al sicuro.

Al magazzino, oltre ai viveri, arrivano anche i feriti. L’ospedale cittadino ha smesso di funzionare, e in tutta Severodonetsk – così ci dicono – è restato soltanto un medico. Così tocca ai volontari prendersi cura di chi è rimasto sotto le bombe.

Un compito difficile, che va espletato alla bell’e meglio, senza l’ausilio di mezzi adeguati e in condizioni sanitarie del tutto proibitive. Al posto dei letti ci sono dei bancali di legno foderati con teli di plastica e appoggiati direttamente sul cemento, tra cicche di sigarette e macchie di benzina.

QUI, SOLO TRE GIORNI FA, una donna è morta dissanguata dopo che una scheggia le aveva amputato una gamba. Noi eravamo lì, è successo davanti ai nostri occhi. Qualcuno le aveva bendato il moncherino con un sacchetto della spesa. Uno dei volontari, dopo aver fatto di tutto per rianimare la moribonda, si è trascinato in un angolo e ha vomitato.

Ieri abbiamo chiesto notizie di quella signora: Chi era? Come si chiamava? Quanti anni aveva? Ci è stato risposto: «Non l’abbiamo mai saputo, l’abbiamo soltanto vista morire».