«Servono politiche demografiche e sviluppo locale»
Intervista Il sociologo Andrea Membretti: Una narrazione troppo romantica della montagna da un lato non mette in luce le opportunità concrete e dall’altro non aiuta a far emergere i problemi da affrontare
Intervista Il sociologo Andrea Membretti: Una narrazione troppo romantica della montagna da un lato non mette in luce le opportunità concrete e dall’altro non aiuta a far emergere i problemi da affrontare
Andrea Membretti, sociologo (Università di Torino e di Pavia), ambasciatore dell’European Climate Pact, è il coordinatore scientifico del progetto MICLIMI. «La ricerca – spiega – ha tre componenti fondamentali. La prima riguarda le proiezioni sul cambiamento climatico ed è emersa una combinazione di fattori ecologici e di fragilità socio-economica che in certi territori sono particolarmente rilevanti, come il Sud della Lombardia e del Piemonte, aree più esposte ai rischi. Ci aspettavamo, probabilmente, dati diversi rispetto ai flussi anagrafici, perché in termini assoluti quelli che si trasferiscono non sono «grandi numeri», ma ritengo che le misurazioni siano sottodimensionate, che il dato angrafico sia poco attendibile: molti vivono in modo multilocale e transitorio la montagna, senza prendervi al residenza. Infine, c’è l’atteggiamento verso la montagna: l’interesse è più alto di quello che ci aspettavamo, con una propensione a dichiararlo più alta del previsto, in particolare tra gli individui di genere maschile e tra i giovani».
Che cosa manca per trasformare questa propensione in un’opportunità?
In Italia mancano politiche demografiche, se non quelle ideologiche come il sostegno una tantum alla natalità. Mancano interventi capaci di tenere insieme demografia e sviluppo locale: senza una demografia accettabile, che guardi alla tenuta della popolazione e al neo-popolamento, non c’è sviluppo. Su questo s’innesca un modello di narrazione che tende a rappresentare il racconto rurale in modo romantico, naif. Questo è negativo in due modi: da un lato non mette in luce le opportunità concrete, come quelle aperte dalla Scuola di pastorizia che ha promosso Riabitare l’Italia, dall’altro non aiuta a far emergere i problemi da affrontare per far sì che vivere in montagna non sia svantaggioso rispetto alle Pianure, in termini di fiscalità, servici decentrati, connessione ad internet. Altrimenti la montagna diventa una scelta elitaria di chi può permetteersi lo smart working.
Emerge un effetto reale dei timori legati al clima come agente di una migrazione?
La pandemia Covid-19 nel 2020 ha visto un incremento di quanti hanno preso residenza in montagna. Molte persone hanno reagito di pancia, hanno avuto paura; nelle ultime due estati, è il clima ad aver incrementato i timori e le paure delle persone. Non credo però che se ci fossero due estati più fresche questa «bolla» andrebbe a sgonfiarsi. C’è una tendenza, dimostrabile da 15 anni di ricerche sui nuovi abitanti della montagna. I fenomemi estremi sono quelli che aiutano a prendere consapevolezza di un problema, a focalizzarci. Non a caso i più preoccupati nelle risposte al nostro sondaggio erano quelli di Bologna, dato che a maggio c’era stata l’alluvione nell’Appennino emiliano-romagnolo. Queste cosa accendono spie: chi vorrebbe vivere in montagna ti dice anche che la montagna è fragile, vorrebbe una messa in sicurezza, interventi di formazione.
Avete analizzato i dati relativi a Milano e Torino, due città profondamente diverse.
Torino è la città metromontana per eccellenza, ha una lunga storia di relazione e rapporto con la montagna, è una città diffusa nelle sue valli. Torino, anche per questo, parte avvantaggiata, ha un orizzonte metromontano. Se penso alle olimpiadi di Milano e Cortina, immagino più che altro i cinepanettoni. E mentre i torinesi salgono nelle valli limitrofe, in particolare la Val Susa, anche in zone rurali e non densamente urbanizzate, tra le mete più gettonate dai milanesi c’è Courmayer e in generale ci sono zone con un passato turistico importante.
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