Senza via d’uscita, May costretta a rinviare il voto
Brexit «Tornerò a Bruxelles per rinegoziare il backstop», la disfatta della premier tra le risate di Westminster. E la sterlina crolla
Brexit «Tornerò a Bruxelles per rinegoziare il backstop», la disfatta della premier tra le risate di Westminster. E la sterlina crolla
Nessun agnello può posticipare la propria andata al macello. Ma ieri, in un altro succulento capitolo della telenovela Brexit, Theresa May – che agnello non è – ha fatto proprio questo. Oggi doveva essere il momento della verità per lei – sempre meno forte, sempre meno stabile – e per la sua bozza di accordo con l’Ue per una Brexit dal volto umano, che mediasse fra il rispetto della volontà referendaria e il rischio di carambolare dalla padella dell’Ue dentro la brace delle regole del Wto (la fantomatica Brexit hard, fuori del mercato unico e dell’unione doganale).
«WESTMINSTER val bene dieci, cento, mille pernacchie» avrà pensato la premier. E dunque via, indossata con l’aiuto del fido maggiordomo la muta impermeabile al senso del ridicolo, Iron May si è presentata alle quindici e trentatré in punto ora di Greenwich nell’agone di Westminster per annunciare il rinvio del voto travolta dalle risa sarcastiche dell’opposizione, oltre che dal crollo della vera sovrana del Paese, Sua maestà la sterlina, piombata mai così in basso negli ultimi diciotto mesi. In una mossa disperata, per evitare una sconfitta certa e guadagnare tempo, May ha ceduto alle pressioni di chi nel suo partito voleva una rinegoziazione a tutti i costi pur di garantirle il proprio sostegno e si è avvalsa della facoltà di rinviare il voto dopo aver freneticamente consultato nel fine settimana i leader europei Merkel, Rutte e soprattutto il premier irlandese Varadkar, oltre che i probiviri dell’Ue, Juncker e Tusk. Ai quali deve aver strappato la disponibilità a ritoccare alcuni aspetti dell’accordo, in particolare il backstop. Resta da vedere quali deroghe l’Ue sia disposta a lasciarsi strappare, dato che il disco suonato ininterrottamente da Bruxelles fin dalla presentazione dello sciaguratissimo documento, frutto di due anni di negoziazioni, era proprio che non vi fossa nulla da ritoccare. Posizione che il solitamente mansueto Tusk ha ribadito con fermezza: i leader europei si incontreranno in settimana per “ratificare” l’accordo, non certo per ridiscuterlo.
UN ACCORDO che non piace a nessuno, brexittieri uscenti ed eurofili rimanenti e che, così com’è e attraverso il famigerato backstop – la clausola di sicurezza per evitare un ritorno a un confine fisico fra le due Irlande che metterebbe a repentaglio la sempre più precaria pace fra unionisti e repubblicani irlandesi – May sapeva non avrebbe avuto chance di passare al voto di oggi. Aveva almeno un centinaio di deputati conservatori contro, per tacere di buona parte dei laburisti, tutti i nazionalisti scozzesi del Snp, compresi naturalmente i riottosi galoppini del Dup. Che non lo vogliono il maledetto backstop, perché potrebbe significare una permanenza indeterminata del Paese nell’Ue o, peggio, un Regno Disunito. A onor del vero, votare ieri sarebbe stato un suicidio. Nel frattempo si era già ampiamente diffusa la notizia dell’assegno in bianco che la Corte europea di giustizia ha firmato ai restanti (facendo schiumare di rabbia gli uscenti): il Regno Unito potrà restare unilateralmente nell’Unione se mai lo volesse, a prescindere dal parere degli altri ventisette membri.
NEMMENO UN BRAVO sceneggiatore saprebbe stare al passo con Westminster. Non solo il rinvio è arrivato solo dopo le assicurazioni rilasciate fin dal primo mattino da vari ministri che il voto ci sarebbe stato. Va anche ricordato l’iter recente della prima ministra: tre sconfitte in aula la settimana scorsa più la prima assoluta dell’accusa di oltraggio al Parlamento per non aver voluto pubblicare il parere legale sull’accordo fornitole in precedenza dall’attorney general, la massima carica giuridica. Con la chicca ulteriore per i fan dei Monty Python di John Bercow, l’efficiente (e sessista) presidente della Camera bassa che bollava come “scortese” la decisione di posticipare il voto, avanzando l’ipotesi di far votare su di essa. Far votare sul rinvio di un voto, perché no?
Dal canto suo, Corbyn semplicemente ripeteva per l’ennesima volta: il governo è allo sbando, deve farsi da parte per permettere a loro, i laburisti, di rinegoziare il migliore degli accordi possibili.
Costituzionalisti di tutto il mondo preoccupatevi: la più antica (e stabile) democrazia dopo l’Atene del V Secolo si comporta sempre più come una monarchia delle banane. Confusion will be my epitaph recita stentoreo l’incipit di una canzone dei King Crimson. Sembra essere anche quello della carriera politica di Theresa May, e del suo insulso predecessore David Cameron.
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