Farsi ammazzare, a Severodonetsk, è molto più facile di quanto si possa pensare. Immaginate una città circondata su tre lati da un esercito ostile.

Nelle periferie si combatte casa per casa, significa che ci sono cecchini appostati sui tetti, e ogni essere umano che indossa una divisa di un altro colore – o che non indossa divise, come nel caso di giornalisti e civili – rischia di essere annientato al minimo cenno di movimento. Le bombe cadono in continuazione, e nessuno – nemmeno gli artiglieri che le lanciano – sa con esattezza dove andranno a cadere.

IERI A SEVERODONETSK è morto un collega, il reporter francese Frèdèric Leclerc Imhoff, della tv Bfm. Aveva 32 anni. Era giovane, molto giovane, come la maggior parte dei cronisti presenti oggi sul campo.

Frèdèric stava seguendo un’evacuazione di civili. Era a bordo di un furgoncino blindato della polizia dell’oblast’ di Lugansk. Un ordigno è esploso sulla strada, la scheggia ha forato le lamiere del veicolo e gli ha tranciato di netto la gola – fine della storia. Ieri questo è successo a Frèdèric, ma poteva capitare a qualunque altro giornalista, internazionale e non.

I furgoni blindati della polizia di Lugansk altro non sono – nella maggior parte dei casi – che vecchi camioncini portavalori ripitturati di verde. Ci siamo saliti anche noi, giusto qualche giorno fa, perché a Severodonetsk le evacuazioni avvengono quotidianamente e sono una delle cose che più vale la pena raccontare.

Ma nessuno, nemmeno la Croce rossa, può dirsi al sicuro su quelle strade. «Quando sentite i fischi delle schegge avete un massimo di due secondi per buttarvi a terra», ci avevano avvisato i volontari prima di farci montare a bordo – e di sibili nell’aria, quel pomeriggio, ne abbiamo uditi veramente parecchi.

OGGI, CON LA MORTE di Frèdèric, sale a circa trenta il numero dei giornalisti ammazzati in questi primi tre mesi di guerra. Al computo vanno aggiunti i nomi dei tanti colleghi uccisi tra il 2014 e il 2022 – a cominciare da Andy Rocchelli e Andrej Mironov, annientati a colpi di mortaio esattamente otto anni fa, mentre facevano il loro dovere di reporter di fronte alle postazioni dell’esercito ucraino.

Ma le bombe – e con loro chi le manovra – non guardano in faccia alle qualifiche professionali, né si fermano di fronte all’indignazione della società civile.

A Severodonetsk ieri è stata altra giornata di battaglia. Il leader dei combattenti ceceni, Ramzan Kadyrov, ha dichiarato che la città è ormai «interamente sotto il controllo russo».

Ciò nonostante questo non corrisponde al vero, perché in tal caso la polizia dell’oblast’ di Lugansk non avrebbe potuto nemmeno mettersi al volante. È certo, tuttavia, che le truppe di Mosca stanno facendosi avanti con sempre maggior decisione.

I VOLONTARI del magazzino per gli aiuti umanitari – che si trova più o meno al centro della città – ci hanno fatto sapere che in questo momento i russi «sono praticamente alla porta accanto».

È probabile che i soldati ucraini cercheranno di trincerarsi nel grande stabilimento Azot, le cui ciminiere dominano la periferia ovest di Severodonetsk e che potrebbe rappresentare l’ultimo baluardo difensivo prima della capitolazione definitiva.

D’altronde, tutti sono più o meno concordi nel dare ormai per spacciata la città. Le macerie dell’unico ponte superstite sul fiume Severskji Donec – che collega il centro abitato con il resto del Donbass ucraino – sono forse ancora transitabili, ma il rischio di crollo, unito al fuoco incessante delle batterie russe, rende ogni passaggio quantomeno opinabile.

Insomma: Putin a breve potrebbe anche averla vinta, ma è proprio a quel punto che si troverebbe a cospetto dell’ostacolo più formidabile – il fiume stesso.

Più volte, nel corso delle ultime settimane, gli uomini di Mosca hanno tentato di guadare il corso d’acqua, ma immancabilmente i droni di Kiev hanno vanificato ogni accenno di sortita. Del resto, un ponte galleggiante non è qualcosa che si possa far passare inosservato e per buttarlo giù non è nemmeno necessaria chissà quale pioggia di fuoco.

DUNQUE, IL NOCCIOLO più o meno è questo: se i russi riusciranno a costruire una testa di ponte al di là del Severskji Donec, è probabile che la presa dell’ex capitale dell’oblast’ di Lugansk possa tradursi in una vittoria strategica, oltre che propagandistica.

In caso contrario, Mosca dovrà accontentarsi dei soliti proclami, delle ormai classiche sfilate di civili festanti (le cui immagini già stanno circolando sui social) e di altre amenità simili. Tutto ciò, al netto dei morti, dei lutti e delle macerie – s’intende.

UNA SITUAZIONE molto simile si sta verificando sul fronte settentrionale, nella zona di Lyman: anche qui i russi l’hanno ormai avuta vinta sugli ucraini, anche qui dovranno presto vedersela col fiume.